Vizio di forma, paranoia d’amore

Vizio di forma, paranoia d’amore

March 19, 2015 0 By Simone Tarditi

“Prima ho letto il romanzo, poi la sceneggiatura”.
(J. Phoenix, intervista a Ciak)

“[Joaquin] prima ha letto la sceneggiatura, poi il romanzo”.
(Paul Thomas Anderson, intervista a Sight&Sound)

 

Le citazioni riportate all’inizio di questo articolo sono l’esatto punto di inizio per cominciare a parlare di Vizio di forma. Il disorientamento è il primo effetto prodotto dalla pellicola di Paul Thomas Anderson, che riesce (con successo) nella difficilissima impresa di dare forma cinematografica all’omonimo romanzo di Thomas Pynchon. Chiunque abbia tentato di leggere il libro di uno dei più enigmatici scrittori americani degli ultimi cinquant’anni si sarà trovato come all’interno di un labirinto costituito da specchi, ognuno dei quali formato da un mosaico di specchi più piccoli dalle tinte psichedeliche. Impossibile uscirne al primo colpo. Bisogna fare pause, tornare indietro, cercare di capire di chi si sta parlando e chi stia parlando, riprendere la narrazione, fare finta di nulla se qualcosa non torna, sperare di trovare delle risposte più avanti e sapere di essere presi in giro fin dall’inizio. Al di là delle detective stories, che si incastonano le une sulle altre e si attorcigliano tra di loro, al di là dei bizzarri personaggi che popolano Vizio di forma, i cui nomi (Sauncho Smilax, Petunia Leeway, Christian “Bigfoot” Bjornsen, Sortilège, Japonica Fenway, Adrian Prussia, Puck Beaverton, per citare i più eclatanti) risuonano nella testa per la loro stravaganza, al di là della geografia irreale (Gordita Beach non esiste e non è mai esistita) della reale Los Angeles di fine anni ’60 e primissimi albori dei ’70, un fatto si può dar per certo riguardo a Vizio di forma: è la storia di un grande amore finito.

Ripensando e rivedendo il film, rileggendo il romanzo, un solo nome echeggia più forte degli altri. È quello di Shasta, la non-più fidanzata di Doc. Attribuire la causa della paranoia del nostro eroe solamente all’abuso di droghe ed erba sarebbe una banale conclusione da sbirri, attribuibile all’anti-eroe (Bigfoot), poliziotto squadrato e abilissimo nel nascondere i suoi reali crimini. La paranoia più grande di Doc non è quella di essere seguito, ma quella di non sapere quanti si stiano scopando la sua Shasta. Vizio di forma parla di come, faticosamente, Doc compia un percorso per venire a patti col mondo dopo che la sua Shasta se n’è andata. Ma Shasta ritorna? Shasta c’è ancora? È proprio lei che Doc vede? In tale senso, il finale lascia intorpiditi più di ogni sua precedente apparizione, come quella fase nebbiosa e annebbiante del dormiveglia. Doc tenta a tutti i costi di risolvere casi di sparizione, senza rendersi conto che il caso più urgente è lui stesso. Doc è il paziente e il medico di se stesso, e forse anche la cura. Occuparsi d’altro e di altri è il miglior modo per lui di guarire, di convivere col fantasma di Shasta, che si affaccia nella sua vita quando ne ha più bisogno e di cui non può fare a meno.

Nella storia del Cinema, più dei numerosi Marlowe interpretati da Bogart, Gould e Mitchum, il vero detective avvicinabile al Doc di Vizio di forma è lo Scottie di Vertigo, un uomo che rimane così coinvolto dal caso su cui lavora da rimanerne devastato e che fa letteralmente “rivivere” la donna che ama, perché non può sopportare l’idea di essere rimasto senza di lei. Se in Vertigo è costante la sensazione del precipitare, in Vizio di forma è già avvenuto lo schianto e si è persa ogni coordinata necessaria per muoversi verso un approdo sicuro.

Se c’è un’immagine con cui ricordare Vizio di forma dev’essere per forza quella di una barca a vela. Tutto il film ne è costellato: chiusa dentro una bottiglia a casa di Doc; in mare, la notte in cui Shasta chiede aiuto; nello studio del Dr. Rudy Blatnoyd; per non parlare della Golden Fang. Il mare, il cui flusso continuo delle onde per eccellenza simboleggia il cambiamento, torna quindi preponderante nel Cinema di Paul Thomas Anderson (da ricordare, con meraviglia, l’incipit e la conclusione di The Master). Doc Sportello è un uomo alla deriva dei propri sentimenti. C’è l’onnipresente pensiero di Shasta, che lo risveglia dal torpore per gettarlo in un vortice di assurdi eventi. Ed è allora che la nave imbottigliata spiega le proprie vele in un mondo che sta cambiando forma. L’Era felice, durata una breve stagione (1967-1969), è definitivamente conclusa: droghe pesanti hanno modificato la gioventù americana, la collettiva paranoia e ansia post-guerra fredda sono più vive che mai, tutto è andato per il verso storto in Vietnam, la setta di Manson ha mietuto le sue vittime (tra le quali anche Sharon Tate, moglie di Roman Polanski), la gente ha ripreso ad acquistare armi e a mettere il lucchetto alle porte e di lì a poco i Nuovi Idoli (Hendrix, Joplin, Morrison) faranno una prematura fine. Doc è testimone di quest’epoca che è finita, anzi, ne è un sopravvissuto. Non c’è nostalgia né malinconia nelle pagine di Pynchon e non c’è nulla di simile nel film di Paul Thomas Anderson. C’è solo un interrogativo martellante: “What happened?” La risposta è chiarissima: “Don’t worry. Thinking comes later”.

Paul Thomas Anderson cita spesso Mondo Hollywood, un documentario del 1967, a suo avviso fondamentale per capire meglio Vizio di forma. È un pastiche di esperienze diversissime sullo sfondo di Los Angeles: futuri membri della setta di Charles Manson e relativi futuri cadaveri (Jay Sebring), star del Cinema Muto che sorseggiano champagne in piscina durante party in cui fanno irruzione hippies scatenati, surfisti fluttuanti tra le onde, spogliarelliste sotto stupefacenti, milionari fuori di testa con scimmiette domestiche. Questa è un’altra faccia della Los Angeles di Vizio di forma, un’indagine sociale di quegli aspetti che nel romanzo di Pynchon e nel film di Paul Thomas Anderson vengono solo accennati, come brevi tratti sfumati ai bordi della storia principale. E sono solo tratteggiati i personaggi che popolano Vizio di forma, spesso non durano più di una scena, terminata la quale risprofondano negli abissi losangelini dai quali sono emersi o si dissolvono nella nebbia notturna.

Il romanzo di Pynchon si apre con la frase “Under the paving-stones, the beach!”, il film di Paul Thomas Anderson si chiude allo stesso modo. Da una parte l’inizio, dall’altra la fine. Ancora una volta quel senso di smarrimento e disorientamento del non sapere dove si è. Ma ci si penserà poi. O non ci si penserà affatto.

-Simone Tarditi

Simone Tarditi
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