
Good Kill, la morte diventa virtuale
July 6, 2015“Solo oggi ho fatto saltare in aria sei talebani in Pakistan. Ora vado a casa a fare un barbecue”.
Questa è una delle prime battute del film, pronunciata da Thomas Egan (Ethan Hawke).
Il fatto che Good Kill sia stato un flop ed abbia attratto a sé più critiche negative che elogi può essere dovuto a due motivi. Il primo è quello di essere maledettamente simile ad American Sniper (a partire dall’incipit stesso del film). Il secondo motivo è quello di essere un lucido e consapevole attacco al governo americano e alla sua politica militare. Scomode verità, che non devono essere piaciute ai pezzi grossi (vedi anche Kill the Messenger, uscito da noi come La regola del gioco).
Thomas Egan è come il Chris Kyle (Bradley Cooper) di American Sniper, uno strumento bellico totalmente scollegato da ogni dimensione se non quella della guerra. Entrambi i protagonisti, dentro le mura domestiche, fanno fatica a rivestire i panni del buon padre e dell’amorevole marito, chiudendosi in se stessi, all’interno dei più segreti meandri della psiche.
Ma in Good Kill si aggiunge un’ulteriore componente: il protagonista vive il trauma della guerra anche nel senso di non sapere più chi sia e del perché non combatta più davvero.
“Noi uccidiamo persone. Dovete tenerlo a mente ogni maledetto giorno. Questa non è la fottuta PlayStation. Anche se, non ci piace ammetterlo, ma il nostro progetto è stato modellato sull’XBox. La metà di voi è stata reclutata solo perché siete un mucchio di gamers, e la guerra ora è uno sparatutto in prima persona. Ma ora quando premete un grilletto, lo fate sul serio, cazzo”. Queste sono le parole di benvenuto alle nuove reclute.
Dunque la morte che diventa virtuale, al limite dell’irreale. Una sensazione che si fa ancora più forte quando gli ordini vengono impartiti tramite telefonate anonime, senza spiegazioni del perché si voglia far saltare in aria un edificio o sterminare un gruppo di persone.
Ciò che prova Thomas Egan nell’indirizzare i droni verso il proprio bersaglio è il nulla più assoluto. Ma, tuttavia, questo nulla lo lacera nel profondo. Mina il suo spirito di ormai ex-pilota (l’inserimento della sequenza quasi-onirica di lui che torna a bordo di un jet è sospesa tra la nostalgia e il desiderio di un bambino che sogna di fare da grande un lavoro eccitante e non banale) e destabilizza fortemente gli equilibri della sua vita.
E tornare a casa, tardi nella notte, trovando il proprio figlio addormentato con il joystick dell’Xbox in mano di fronte ad uno sparatutto, è solo fonte di ulteriore amarezza.
Ethan Hawke (in gran spolvero ultimamente, recentemente visto in Predestination) torna al lavoro con Andrew Niccol dopo Gattaca e Lord of War, e lo fa per una giusta causa, per mandare un messaggio morale là fuori nel mondo. Solo che quasi nessuno ha voluto ascoltarlo. Uno dei pochissimi registi che si sono schierati dalla parte di Niccol, elogiando il film per il grandissimo pezzo di cinema che rappresenta, è stato niente meno che William Friedkin. C’è da fidarsi.
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