
True Detective 2 è la stagione che ci meritiamo?
August 12, 2015I numeri parlano chiaro: la seconda stagione di True Detective ha perso il 22% degli spettatori rispetto alla prima. Cifre da non sottovalutare, e gli addetti ai lavori lo sanno bene. Questa nuova e intricatissima storia ha scaldato gli animi, ha deluso moltissimi e moltissimi altri ne son rimasti invece semplicemente poco convinti, ma c’è stato anche qualche audace e ardito spettatore che è arrivato ad elevarla addirittura più in alto della prima (e ci vuole coraggio). Noi stessi, all’interno di Vero Cinema, abbiamo discusso per ore sulla qualità del prodotto HBO, e, seppure con posizioni differenti, siamo giunti all’unica conclusione che è giusto trarre: il potenziale di questa nuova stagione era enorme, ma troppi difetti l’hanno penalizzata in partenza e, di puntata in puntata, tutto ciò ha assunto dimensioni macroscopiche. Si è creato un buco nero che ha fagocitato aspetti positivi e negativi assieme, lasciando quel senso di incompiutezza che un prodotto televisivo di questo calibro e con questo titolo non può permettersi.
E sulla questione del “titolo” vogliamo soffermarci.
True Detective nasce e muore di stagione in stagione. Ed è su questo elemento che vale la pena spendere qualche parola. Ogni stagione è un progetto a sé stante: personaggi diversi, luoghi diversi, vicende diverse, registi diversi, e così via. Lo shock, a cui siamo stati tutti sottoposti quando abbiamo visto le prime due puntate di questo nuovo True Detective, ci ha riportati immediatamente alla prima stagione e agli inevitabili paragoni con essa. É nella natura umana rapportare un qualcosa ad un suo antecedente e non c’è assolutamente nulla di male in tutto ciò. Ma questo è il punto di svolta per seguire una via o meno.
Se paragonata alla prima stagione, la seconda è indubbiamente inferiore per scrittura e realizzazione.
Se concediamo invece alla seconda stagione di vivere una sua esistenza indipendente dalla prima, allora può brillare di luce propria.
È, in definitiva, proprio il titolo “True Detective” a rappresentare la grande croce sulle spalle di questi nuovi otto episodi e sui relativi personaggi. Perché? Il motivo è semplice: è un prodotto radicalmente differente e lontano dal primo e in quanto tale andrebbe giudicato. Facciamo un gioco. Proviamo quindi a immaginarla scollegata dalla prima, senza nessun legame con essa e con un nome diverso (scherzando tra di noi, l’abbiamo intitolata “California Killing” perché è ambientata in California e perché Pizzolato, il realizzatore, ha scritto alcuni episodi di un’altra serie tv, “The Killing”). Stiamo parlando per assurdo, ovviamente. Un determinato prodotto (soprattutto di questo genere e di questi livelli) va necessariamente collegato a chi l’ha scritto, ma proviamoci comunque. Non sarebbe, comunque, una serie tv superiore alla media delle altre che trattano un analogo argomento? Saremmo qui tutti a dipingerla in modo negativo? Oseremmo definirla, come ragguardevoli siti di cui non faremo nome stanno facendo, un “disastro assoluto”? Chiariamoci, non siamo qui per difenderla a spada tratta, non vogliamo andare controcorrente a tutti costi. Si tratta solo di abbandonare quel seno materno (la prima stagione) che ci ha riempiti di sicurezze e insicurezze, per guardare questa nuova creatura.
Non siamo ciechi. I difetti li abbiamo notati fin da subito, ma abbiamo provato a chiudere un occhio, poi l’altro, poi il terzo occhio, poi l’occhio dietro la testa, poi quello dentro la testa, poi quello del nostro vicino e così via, per cercare di resistere e vedere come sarebbe andato a concludersi questo nuovo True Detective (alla fine ci sono rimasti solo gli occhi sulle mani, un po’ alla Labirinto del fauno).
Gli infiniti personaggi, dai nomi stravaganti e spesso solo intravisti, le troppe vicende con altrettante reazioni a catena, gli improbabili dialoghi disgiunti da tutto il resto, sono andati a costruire quel dedalo narrativo in cui Pizzolato si è imprigionato da solo. Aggiungete che la regia degli episodi è stata affidata a sei registi diversi, dei quali solo Justin Lin (a tratti) e John Crowley (in maniera più significativa) sono riusciti a dare un senso al caos sopracitato e a farci capire qualcosa di più.
La prima stagione, invece, è stata diretta interamente da Cary Fukunaga, che ha fatto approdare il capolavoro televisivo dell’anno scorso ad una perfetta coerenza stilistico-narrativa.
Ma in questo nuovo True Detective (o, se lo volete chiamare come noi, California Killing) qualche componente è davvero notevole. Per esempio, esso è una grande storia di padri mancati e di padri mancanti. Non c’è uno solo dei protagonisti che abbia avuto una sola vicenda familiare decorosa. Frank Semyon (Vince Vaughn) veniva picchiato e rinchiuso in cantina dal padre e a sua volta non riesce a diventare padre, forse a causa dell’infertilità della moglie Jordan (Kelly Reilly). Ray Velcoro (Colin Farrell) ha un rapporto conflittuale con un padre che probabilmente l’ha spinto a fare il suo stesso mestiere (il poliziotto) condannandolo inconsapevolmente ad una vita che non faceva per lui. Inoltre Velcoro non ha la certezza di essere il padre biologico del figlio Chad (ironia della sorte: l’ex moglie lo scopre quando ormai è troppo tardi) e sarebbe diventato per la seconda volta padre, se la morte non fosse sopraggiunta. Ani Bezzerides (Rachel McAdams), che diventerà madre del bambino di Velcoro, nutre un odio indecifrabile per il proprio padre, che non l’ha doverosamente protetta in tenerissima età nel momento del bisogno. E infinire Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), il più tormentato di tutti, non ha mai conosciuto il proprio padre e anche lui, come Velcoro, non avrà il tempo di veder nascere il proprio figlio. Per estendere questo discorso alla California, essa è una terra “paterna” e “materna” allo stesso tempo. Un luogo sentito come proprio da tutti i protagonisti, ma che è diventata una semplice terra di conquista per chiunque (russi, turchi, latino-americani, per citare i più importanti nella serie), senza la minima considerazione per il territorio (abusi edilizi, gare d’appalto truccate, inquinamenti del terreno e dell’aria, e via discorrendo).
Troppo poco per salvare in toto una stagione intera che utilizza un misterioso omicidio per raccontare altro, finendo per perdere le coordinate della narrazione? Sì. Decisamente. C’è altro di buono (l’amarissimo finale con l’eterna vittoria del Male e la relativa simbologia degli uccelli predatori, per citarne due), ma non basta, come si è già detto.
Quindi, per tirare le somme, che cosa ci rimane? Qualche bel momento in un deserto di desolazione? Quella sensazione di incompletezza che sfocia nel disprezzo? Quell’illusoria soddisfazione per non ammettere la delusione? Dipende da quale via avete seguito. E quindi torniamo all’inizio della questione. Chi si sente di criticare questa stagione di True Detective, fa benissimo a farlo. Chi invece vuole compiere un’operazione inversa può aggrapparsi a ciò che di buono è stato fatto e accontentarsi.
Qui non ha vinto nessuno, è stata solo persa un’occasione di fare qualcosa di grande. E questo è innegabile.
Ne faranno una terza? Sappiamo che hanno aperto le porte a Pizzolato per realizzare un ulteriore capitolo (nonostante i numeri non esaltanti di cui abbiamo parlato all’inizio). Ma ora come ora è impensabile che si rimettano immediatamente al lavoro su questo progetto. Ci auguriamo, nel caso, che facciano mente locale per imparare dagli errori commessi, senza però dimenticare ciò che di assolutamente positivo è stato fatto.
È come compiere un’autopsia per risalire alla causa di morte di una persona in salute. Cosa può essere successo? Cosa è andato storto nel suo percorso di vita?
Forse, col tempo, anche questo True Detective verrà rivalutato, non perché sia necessario farlo a tutti i costi, ma perché la storia insegna che quelli che ora consideriamo grandi classici del passato, alla loro uscita ricevettero una fredda accoglienza, se non critiche negative. È successo in passato e continuerà a succedere. Forse, tornando alla questione dei padri, fra anni e anni, sentirete i vostri figli considerare un “cult” le vicende di Velcoro & Co., e vi farete una grossa risata, come è giusto che sia.
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