
Alleluia, la discesa negli inferi del masochismo
September 14, 2015Cannes 2014, Quinzaine des rèalisateurs. L’astro nascente dell’horror indipendente francese, Fabrice du Welz, presenta il suo quarto lungometraggio, Alleluia. Per chi ha familiarità con questo giovane auteur di sangue belga, la pellicola sembrerà il suo miglior prodotto, accolto con clamore soprattutto dopo i problemi di produzione legati al precedente Colt 45 (ammirato tristemente in locandina dall’esterno del cinema parigino Pathé di Place de Clichy).
Per chi invece non ha familiarità con du Welz, l’ossessione portante, intesa come elemento fondamentale che si ripete in maniera modulare nelle pellicole, a suggerire un chiaro intento poetico, è il racconto delle relazioni amorose. In virtù del legame silenzioso che accosta l’amore alla morte, al regista interessa scavare all’interno delle anime, raccontandone lo squallore, le derive esistenziali e patologiche, scaturite dalla potenza al tempo stesso straordinaria e terrificante del sentimento. Se il suo secondo lavoro, Calvaire, portava lo spettatore negli abissi della mente di un uomo vedovo, ancora legato alla memoria della moglie da cui non riesce a staccarsi, in Alleluia decide di confrontarsi con la natura più intima di un rapporto di coppia.
Sfruttando il pretesto della storia vera dei criminali Beck e Fernandez (America, anni Settanta), soprannominati “The Lonely Hearts Killers”, trasferisce la vicenda in Francia, ripesca Laurent Lucas (già protagonista in Calvaire) e Lola Duenas (attrice di punta di Almodovar) e manipola l’intreccio per sottometterlo al suo scopo.
Du Welz non ama le etichette: non può (e non vuole) definirsi un autore di film horror, perché sarebbe troppo semplicistico. Il genere viene solo manipolato per condurci in una esperienza sensoriale disturbante. Abbiamo Gloria (Duenas), addetta alla preparazione dei cadaveri in obitorio, con una figlia e un marito violento alle spalle. E poi abbiamo Michel (Lucas), professione seduttore, affetto da emicrania e con un passato di abusi da parte della madre. I due si conoscono tramite una chat per incontri e da lì prende avvio l’intreccio. Al regista importa poco la descrizione del contesto, sempre sospeso in un ambiente slavato, indeterminato, spesso selvaggio e ostile, quasi onirico, eppure mai del tutto surreale nel suo essere grottesco. La vicenda è suddivisa in quattro atti, ciascuno col nome della donna che l’attraente Michel cerca di adescare nel tentativo di estorcere denaro. Gloria sarebbe solo la prima di esse, salvo innamorarsi follemente di lui e decidere di compiacerlo nei suoi progetti, accettando la sua promiscuità pur di rimanergli accanto e prendersi cura di lui. Purtroppo i suoi deliri di gelosia la conducono ad esplosioni di violenza incontrollabile, che condurranno la coppia al fallimento dei progetti e in abissi sempre più turpi.
Du Welz decide di focalizzarsi sui meccanismi di potere e sottomissione che si instaurano lentamente nella relazione, seguendo l’alternarsi dei ruoli nella dinamica del masochismo, sottolineando il potente legame tra la vittima e il carnefice, e di come entrambi non possano vivere in assenza dell’altro (Blue Velvet, privato dell’eleganza e della sospensione del neo-noir). In precedenza il regista non era stato così empatico con i suoi personaggi, che aveva invece scrutato da lontano; ora invece è totalmente focalizzato sull’intensità della loro recitazione: sì è talmente vicini a Gloria da credere di sfiorarla; osserviamo la realtà dal suo punto di vista, assistendo a sguardi folli di compiacimento, al suo terrore per l’abbandono, alla necessità della possessione fisica.
Sono entrambi dei mostri che si comportano come bambini, privi di alcun senso morale, capaci di ridere e perdonarsi omicidi, di fare sesso nelle vicinanze di un cadavere, di dominare sull’altro e al tempo stesso di compiacerlo. Michel è un groviglio inestricabile di feticismi, dall’attrazione per i piedi alla gerontofilia, che Gloria cerca di soddisfare e punire. Sostiene l’autore: “the characters are monsters, but you have to be able to relate to them because we all have the same issues at the end of the day – the struggles of loving and being loved in return”.
Fabrice du Welz, prima di essere regista, è un instancabile cinefilo. Il suo Alleluia è girato in 16 mm, restituendo un’immagine sporca e sgranata, altrimenti imputabile al low budget, che rappresenta invece uno dei mezzi più efficaci per la confluenza dell’estetica nel comparto tecnico. La macchina da presa stringe continuamente sui volti, cercando di catturare l’essenza degli sguardi. Si sposta poi improvvisamente, tremando, indugiando sui particolari, realizzando soggettive “impossibili” da cadavere o pseudo-soggettive che adombrano i volti nel tentativo di sottolineare uno stato d’animo, uno sguardo d’inquietudine al mondo, sospeso tra realtà ed espressività. La messa in scena viene necessariamente manipolata per servire l’idea della discesa nello squallore del sesso e della miseria umana, in uno spazio sottomesso alla mente in cui alberga la crescente follia.
La rievocazione della violenza dell’ex marito di Gloria è affidata al cambio repentino di fotografia; allo stesso modo, la sua ricerca disperata di Michel dopo che egli l’ha inizialmente abbandonata si traduce in una sequenza dominata dal blu del sogno e dal rosso dell’incubo, come miscela della disperazione e degli istinti più arcani tipici del bambino (Suspiria).
Che il surreale abbia un posto di rilievo, a scardinare il conformismo del reale, è suggerito dalle sequenze allucinatorie che intervengono nella vicenda e sono per la gran parte responsabili dell’inquietudine emergente. L’allucinazione può forse rappresentare un marchio di du Weltz, che in Alleluia si traduce in una danza macabra dei due amanti nudi attorno al fuoco, al suono di musica elettronica, come manifestazione più vivida della follia sguaiata del loro sentimento incontrollabile. A questo proposito, consiglio di recuperare una sequenza simile in Calvaire, ambientata in un bar, in cui si assiste ad una danza meno frenetica ma di gran lunga più disturbante, sotto il suono del pianoforte.
Per la sua stretta vicinanza con tutto ciò che c’è di più orrendo al mondo (apoteosi dell’horror “sociale”, se si dovessero mettere etichette fastidiose), ovvero le potenzialità partorite della mente umana e dalle sue relazioni col mondo esterno, sarebbe meglio non guardare Alleluia da soli.
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