
Birdman e la cuginetta zoccola del prestigio
September 18, 2015Prima dell’inizio ufficiale delle riprese di Birdman, Iñárritu inviò al cast una celebre foto di Philippe Petit che cammina su un filo sospeso sulle sommità delle Torri Gemelle il 6 agosto del 1974. Sul retro della foto scrisse: “Questo è il film che faremo. Se cadiamo, falliamo”.
Di cosa parliamo quando parliamo di Birdman?
Iñárritu l’ha definito un “labirinto nella mente di Riggan Thompson”, interpretato da Michael Keaton (il mio morale vincitore come miglior attore protagonista agli ultimi Oscar). Ognuno deve sentirsi libero di trarre dal film (come, in generale, da ogni opera) quello che vuole, anche niente. Stessa considerazione valga per l’affermazione di Iñárritu.
Nei labirinti ci si smarrisce, si perde sempre una parte di sé. Questo è il loro fascino.
Il continuo entrare ed uscire di scena, combattere con il proprio personaggio e con i propri demoni interiori, aggrapparsi alla finzione perché più vera e sincera della realtà, danno forza alla formula shakespeariana “Tutto il mondo è un palcoscenico”, che costituisce le fondamenta del film.
Riggan, che controlla (realmente oppure no?) gli oggetti con la telecinesi, ma che non è ancora riuscito a dare una svolta alla sua esistenza, che conosce ogni meandro del St. James Theatre e ne percorre con sicurezza ogni corridoio quasi quanto il protagonista de Il Fantasma dell’Opera, di cui si vede anche una locandina lungo Broadway e a cui somiglierà alla fine del film per via della “maschera” di garze e cerotti sul viso (un’altra variazione sul tema dell’incontro-scontro tra finzione e realtà, di cui si leggerà a breve), vive in un delirio di onnipotenza che è tale solo nella sua testa, in quel labirinto mentale che trova forma nello spazio stesso del teatro.
Sullo specchio del camerino di Riggan (luogo simbolo dello sfasamento tra il reale e il fittizio), un foglio incollato recita: “Una cosa è una cosa. Non ciò che viene detto di quella cosa”. Il conflitto irrisolubile tra la realtà e la sua rappresentazione, tra quello che è e quello che diciamo che sia, conduce in un campo di battaglia senza vincitori né vinti. Ed è ciò che dilania, nel profondo, Riggan, anche se noi non vediamo altro che il caos della sua vita, il cui finale episodio è costituito dalla rappresentazione teatrale del racconto di Carver intitolato “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”.
È ovvio che per Riggan mettere in scena questo spettacolo non sia solo un modo per far vedere a Hollywood di essere un vero attore, ma soprattutto per dimostrarlo a se stesso (il messaggio scrittogli da Carver stesso su un fazzoletto è l’oggetto-totem che si porta sempre dietro, fino ad abbandonarlo quando non ne ha più bisogno).
Ma nel percorso per arrivare a ritenersi “veri attori”, c’è spazio per altro?
Mike Shiner (Edward Norton) se ne esce con un’esclamazione efficace: “La popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio”. Nella rappresentazione, a tratti impietosa, degli esseri umani nel cinema di Iñárritu, non stupisce che lo stesso Mike Shiner sia in verità un vanesio, che contribuisce all’accrescimento della sua stessa “fama” per mezzo del suo non-mascherato autocompiacimento.
Nel film è data quindi grande rilevanza al concetto di “essere famosi”, a cui si lega indissolubilmente quello di “realizzazione”. Emblematica è quindi Lesley, interpretata da Naomi Watts, il cui personaggio si può riassumere con una sua stessa battuta: “Questa è Broadway. E io sono qui, finalmente”. Lesley è un’ormai-non-più-così-giovane donna, che, arrivata al successo, continua a sentirsi una bambina e un’inadeguata e che riesce a trovare una vaga rivincita alle umiliazioni della vita nell’atto del recitare.
Negli anni è stata attribuita a James Dean (e mi piace credere che sia genuina) una citazione: “La soddisfazione sta nel fare, non nel risultato”. Questa semplice frase riassume quel “senso” che i personaggi di “Birdman” -Lesley per prima, ma in qualche modo anche Riggan- vanno inseguendo non solo per tutto il film, ma idealmente anche per tutta la loro carriera.
Quel senso di vuoto alla fine dello spettacolo è tutto meno che “sentirsi soddisfatti”. Broadway è intesa come un traguardo (per Riggan è anche una rivalsa nei confronti di Hollywood, quasi una nuova “vita”), ma negli interminabili momenti dopo uno spettacolo ci sono vuotezza interiore, insicurezza, terrore per il futuro e, sempre più distanti e sempre meno rumorosi, gli applausi del pubblico.
Pertanto, un attore è vivo fino a quando è in scena. Per Riggan allora la perfetta uscita di scena diventa la morte, o almeno il realistico inscenamento di essa (il romanzo di Philip Roth, The Humbling, e il relativo adattamento cinematografico con Al Pacino toccano lo stesso tema, seppur diversamente).
Recitare non è solo un’arte, e in quanto tale va “coltivata”, ma dev’essere un atto estremo, come lo è lo scrivere (“Questo è Carver! Ha lasciato sul tavolo un pezzo di fegato ogni volta che ha scritto una pagina!”).
Riggan sembra voler affidarsi agli stimoli teatrali ed esistenziali di Mike Shiner e voler credere fino in fondo alla necessità di “smettere di recitare” e diventare, finalmente, un vero attore, rivestendo integralmente la pelle del personaggio che interpreta e nel quale si confonde e mimetizza, finendo per mettere in scena una “versione” di se stesso.
Il film di Iñárritu è come un testo teatrale in continua metamorfosi, che cambia e si trasforma di rappresentazione in rappresentazione. Una volta è un qualcosa, altre volte è qualcos’altro. Ma non è mai quello che viene detto di quel qualcosa. Quindi, di cosa parliamo quando parliamo di “Birdman”?
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