
L’inestirpabile vizietto del Festival cinematografico di nicchia
October 8, 2015A tutti piace atteggiarsi a baluardo della cultura e diventare paladini delle arti. Vale anche e soprattutto per il cinema, che sta tra le arti più remunerative. Tant’è che spesso ci si improvvisa grandi manager, e si organizza, in un impeto di cinefilia malriposta, un festival cinematografico in un bugigattolo di paese che a momenti non ha neanche un cinema (è il caso, ad esempio, del Festival di Tavolara, in Sardegna, nessun cinema presente sull’isola). Approvato il progetto, deciso eventualmente il tema, ed ecco che ci si appresta ad affrontare tutte le beghe burocratiche del caso. Che sono tantissime: SIAE, eventuale occupazione del suolo pubblico, noleggi, affitti e licenze varie. Un costo esorbitante, in parte coperto da sponsor e partner, in parte dall’eventuale risposta del pubblico che il festival cerca di avere.
Il proliferare di festival del cinema è una piaga nazionale. Non si contano le rassegne, gli omaggi, i festival a tema e quelli a muzzo, quelli per i cinefili duri e puri oppure per un pubblico disomogeneo.
Il problema è che un festival cinematografico costa, e tanto. A tal punto che spesso è difficile rientrare nelle spese. Innanzitutto, servono film da proiettare. E questo significa in primis dover noleggiare i film. E’ vero che spesso le case di produzione sfruttano i festival per sottoporre all’attenzione internazionale un’opera particolare o un film di difficile distribuzione. Ma si tratta appunto di festival con un tasso di risposta e un’attenzione mediatica sconosciute ai festival di nicchia. Mettiamo dunque che il volenteroso organizzatore di eventi culturali (d’ora in poi OEC), le cui casse piangono, decida o di proiettare film vecchi, cioè già distribuiti al cinema, oppure di recuperare film indipendenti, la cui produzione concede direttamente l’autorizzazione alla proiezione. Scelta da fare con le dovute cautele: la massaia del borgo medievale dove si svolgerà il festival non avrà alcuna intenzione di sorbirsi le paturnie dell’allevatore moldavo (soprattutto se deve pagarci sopra il biglietto). Il nostro OEC dunque non può far altro che indirizzarsi verso film già distribuiti. Ma la proiezione pubblica di qualunque film su supporto homevideo (cioè DVD) è vietata in virtù della legge per i diritti d’autore. L’autorizzazione va richiesta alla casa che detiene i diritti di proiezione pubblica del film, e il costo di noleggio si basa anche, ad esempio, sulla capienza della sala in cui il film verrà proiettato. Ciò vale non solo nel caso in cui il nostro OEC decida di far pagare il biglietto al pubblico smaniante di rivedere per l’ennesima volta Anna Magnani, ma anche in caso di proiezioni gratuite. Il pagamento dei diritti d’autore fa sì che l’OEC possa anche fare pubblicità, inserire il titolo del film in eventuali brochure, siti internet, programmi cartacei… nonché chiedere il biglietto, qualora si tratti di una proiezione a pagamento. Oltre a questo, c’è anche la SIAE, che detiene i diritti delle colonne sonore e si occupa di corrispondere all’autore della musica il compenso adeguato.
Secondo passo: trovare la location adeguata. Considerando che, nel caso di una sala cinema da appena 150 posti, l’affitto è di circa 500 euro (per una sola proiezione), oppure nelle sale più grandi, da 400 posti, il costo è di 1500 euro (sempre più iva), risulta difficile rientrare con le spese. Meglio dirigersi verso una manifestazione all’aperto allora, magari in una piazza o in un parco. Ma anche qui i costi lievitano: la SIAE va comunque pagata, e bisogna considerare, oltre ai soliti diritti d’autore per il noleggio del film, anche la tassa di occupazione del suolo pubblico, che ha i suoi parametri in base all’‘importanza’ dell’area occupata (ad esempio, Milano prevede tariffe particolari per aree di particolare prestigio, come piazza Duomo o piazza Castello), la densità di traffico e abitativa, l’entità dell’occupazione – un conto un piccolo stand, un conto un maxischermo da centinaia di sedute – nonché la durata dell’occupazione e il sacrificio imposto ai cittadini per la sottrazione di uno spazio comune seppur per un periodo di tempo limitato. A ciò si aggiungono: l’agibilità, eventuali costi di impianto elettrico, l’imposta sugli spettacoli e la pubblica sicurezza, l’affitto di proiettori (minimo 80 euro giornalieri), l’ingaggio di un proiezionista, di uno staff tecnico, e, a voler fare le cose fatte bene, qualche ospite d’una certa importanza. Un film relativamente importante, dalle 120.000 presenze, può anche arrivare a costare 700.00 euro.
Può capitare, e succede spesso, che la risposta del pubblico sia insignificante. In questi casi si dà la colpa all’assenza di pubblicità (è successo con il Festival di Cervignano, paese di appena 13.700 anime, controllare per credere) o, per i fustigatori dei costumi contemporanei, “all’ignoranza dello spettatore medio che non sa apprezzare la cultura”. A volte si consegnano premi, perlopiù insignificanti. Ancora, spesso si fanno rassegne per tematiche e si dà spazio “a certi temi che vengono ingiustamente trascurati dalle case di distribuzione”. Giuriamo di aver ricevuto comunicati stampa sul Festival Corto e Fieno, location Ameno, sul lago d’Orta, 874 abitanti, in programma proiezioni di film sull’agricoltura e l’allevamento. Non neghiamo che alcuni festival abbiamo un certo successo, e vengano riconfermati di anno in anno grazie alle presenze. Ma davvero: ce n’è bisogno? Il sito informagiovani.it nel 2010 ne censiva più di un centinaio. Molti nel frattempo sono morti, altri sopravvivono. Non sarebbe meglio investire nella cultura in altri modi, ad esempio valorizzando architetture e luoghi d’interesse artistico locali e, soprattutto, permanenti? Bisogna per forza arroccarsi nel nostro solito campanilismo triste, per cui anche la suddetta massaia del pittoresco borgo deve pubblicizzare orgogliosa il festival cinematografico del suo paese natale?
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