Non essere cattivo, il testamento dei reietti

Non essere cattivo, il testamento dei reietti

October 16, 2015 0 By Angelo Armandi

L’ultima opera di Claudio Caligari, un testamento di pura carne sconfitta su cellulosa in movimento. Un alternarsi di corpi che scivolano in esistenze inautentiche, gettati nel mondo senza alcuna speranza di redenzione. L’universo pasoliniano riproposto nel suo crepuscolo all’alba delle droghe sintetiche degli anni Novanta, con un realismo che è manifesto d’amore, di legame doloroso ai reietti sullo schermo. Il dissidio interiore scorsesiano, come elemento della più alta umanità dei corpi, il senso di colpa e il cadere ripetutamente nelle proprie debolezze, incespicando nell’irresistibile attrazione per il peccato (Mean Streets), con un pizzico di Abel Ferrara nelle sequenze notturne, nei giochi di luce, nella vicinanza ossessiva ai personaggi, nella sporcizia dell’immagine, nell’ineluttabilità degli eventi come picco finale di una sequela interminabile di schifezze (Bad Lieutenant).

Non essere cattivo, scrittura a sei mani di Caligari, Serafini e Meacci, è un monito che riesce a suonare dolce e severo al tempo stesso. Questa gente, il popolo delle borgate di Accattone e Mamma Roma, trapiantata nella Ostia di due decenni fa, è in grado di essere malvagia non covando alcuna reale cattiveria, ma come mezzo per la sola (necessaria) sussistenza. In questo senso, il realismo sembra essere la misura più efficace per subire la loro naturale evoluzione nel mondo, per penetrare la loro mente, comprendere i loro gesti, prevedere i loro reiterati fallimenti.

L’attitudine documentaristica rientra nelle cornici della grande narrazione cinematografica nel seguire le orme disordinate dell’amicizia tra Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi), osservando le loro scelte, i loro destini, la loro fragilità negli sguardi, così da percepire l’origine di un’empatia, il cuore pulsante dell’opera, che realizza un melodramma affidato al mezzo cinematografico, alle potenzialità espressive della camera (il ralenti eccellente, l’ossessione per i dettagli, il montaggio sincopato) e del profilmico (la forma delle allucinazioni, l’intromissione di elementi cristiani evocativi della colpa, il posizionamento dei corpi ai margini dell’inquadratura).

Dalla vicenda intimista di due amici, lo sguardo del regista si amplia per abbracciare l’intera generazione, facendo di questa piccola tragedia un romanzo corale calibrato sin nei dettagli più minuti. L’interpretazione attoriale sembra decisiva nel determinismo dell’equilibrio tagliente tra l’implacabile fissità dello sguardo della mdp e la delicata introspezione, fuori dai confini delle immagini, che dispiega a livello inconscio, quasi inafferrabile eppure percepibile con potenza, l’ostinazione con cui questi ragazzi ricadono negli errori, nell’incapacità di superare la propria condizione di emarginati, sommersi nel loop di puttane, droga, alcol, crimini, con lo spettro ancora immobile dell’AIDS (lo abbiamo dimenticato, forse?).

Dicevo di una malvagità priva di cattiveria. Raccontava Martin Scorsese che nella sua Little Italy ogni isolato aveva una piccola banda di delinquenti, di cui molti sarebbero divenuti goodfellas, e quella di cui lui faceva parte fortunatamente non usava armi, perché in realtà ne erano tutti spaventati. Il nostro Cesare, un cadavere vivente che suscita commiserazione dalla sua prima apparizione, incarna quella bontà reietta e ingenua che si palesa nel furto di un peluche per la cuginetta malata. Se Vittorio, dallo sguardo già più severo e consapevole, ha compreso la necessità di reimmettere sangue nel torrente di droga dell’organismo, Cesare non concepisce la dicotomia tra l’idea manichea del lavoro in contrapposizione alla delinquenza, osteggiando le numerose occasioni di riscatto con una pistola scarica da estrarre all’occorrenza, come valore massimo della sua condizione, per una buona parte autoinfilitta, di corpo che non conosce alternative. A questa testarda ostinazione, che si amplifica all’aumentare degli individui di borgata che condividono gli ideali di criminalità, va ricondotta la sua (e di tutti) incapacità di svincolarsi dal passato, di redimersi, in virtù di una salvezza che corrisponde all’affermazione dell’individuo come essere umano, al di là del corpo.

Le loro esistenze sono già dei testamenti, sono già marchiate dall’ineluttabile morte tra quelle stesse strade che le hanno partorite. Contrariamente al passato, però, Caligari chiude con una finestra di speranza, che però non può appartenere a questa gente, ma ai loro figli. Quasi l’idea che le generazioni successive possano avere il coraggio di emanciparsi dalla miseria: un grande punto interrogativo. Se fosse rimasto in vita, Caligari lo avrebbe certamente raccontato con l’occhio attento e paziente di colui che sa interpretare i meccanismi della socialità. Noi dobbiamo accontentarci di un trittico potente (Amore tossico e L’odore della notte come anticamera), fuori da ogni idea contemporanea di cinema e da ogni schema preimpostato, che è già parte viscerale della nostra storia.

Angelo Armandi