Caro diario, uno sguardo morale

Caro diario, uno sguardo morale

November 18, 2015 0 By Angelo Armandi

Nel panorama morettiano, Caro diario è forse la prima pellicola dichiaratamente autobiografica. Incede sin dai primi attimi con la naturalezza dell’attitudine cronachistica, quasi monocorde, della voce del regista. Il risultato è molto spesso ironico, dal sapore esistenzialista, e l’espressione sempre attonita e ingenua dell’attore si identifica nella scrittura del film, con l’andamento confidenziale e sconclusionato di un flusso di coscienza da riservare al segreto di un diario o di pochi intimi.

L’identificazione avviene ad un livello così viscerale che sorprenderebbe pensare che Moretti stia recitando (e le sue doti attoriali, in virtù di un personaggio che sembra ripetersi in maniera modulare in ogni pellicola, non brillano per convinzione artistica, eppure risultano credibili per la forte partecipazione emotiva in eventi ripescati direttamente dalla vita).

L’estrema naturalezza, da cui discende una apparente casualità nell’inserzione dei microepisodi di cui si compongono i tre sintagmi di Caro diario (In vespa, Isole, Medici), e le tante vicende di una quotidianità pervasa dal piattume e dai saltuari picchi di emotività, e le fonti di esperienza scaturite da riflessioni e visioni e dialoghi sbriciolati nel mentre, trovano logica in un processo narrativo sempre sospeso tra il documentario e la finzione. La voce “off in” (Aprile, Mia madre) riallaccia il legame tra la diegesi e il fuori campo, nel tentativo di confermare l’identificazione, di affermare la necessità di una riflessione consapevole che sfrutti l’immagine in movimento come catarsi, come elaborazione della propria esistenza.

L’immagine si eleva a simbolo della propria intimità, del dissidio, di uno stato di coscienza che in Moretti appare sempre superficialmente atarassico, come dispiegato visivamente in un interminabile e (a)finalistico giro in Vespa per una Roma desertica e assolata. La macchina da presa, quindi, consente all’autore di indugiare laddove l’istinto lo richieda, e la narrazione lo accompagna nel suo incedere (“e allora suono a un citofono, e faccio finta di fare un sopralluogo”), dispiegando man mano pezzi di anima, per rivivere il senso di una emozione, di un’idea, nel tentativo di comprendere l’esistenza nella sua interezza. L’interposizione brusca con frammenti di immaginazione (ancora Mia madre), anch’essi narrati con la calma della disillusione, fortificano il percorso di elaborazione dell’intimità con l’analisi di un subconscio ribollente e così estraneo alla coscienza vigile (“ma quando è cominciato, quando è cominciato tutto questo?”) e suggeriscono l’approccio più adeguato a fronteggiare un mondo verso cui ci si sente in realtà impotenti, sconfitti già nelle premesse, in assoluta solitudine con le proprie idee che nessuno sembra condividere.

Allora Caro diario, se nella sua struttura parcellare appare tanto scardinato quanto lo è lo sguardo della macchina da presa, e di chi la sta muovendo, nella sua interezza esprime tutta la potenza di un grande percorso esperienziale. Moretti vaga senza meta, alla ricerca di qualcosa, costantemente distratto da frammenti di mondo evocativi, è in costante procinto di fare qualcosa ma bloccato nelle intenzioni, cerca un dialogo con la gente che popola il mondo, vive in un ostinato e consapevole isolamento (La messa è finita, con i dovuti distinguo).

Ed è in questo che il cinema si riappropria della sua natura più antica, di immagine in movimento, che è anche lo sguardo dei moderni (Kubrick, come sineddoche), che approda, dopo una lunga ricerca, al monumento dedicato a Pasolini, e là si ferma e stringe, come se l’occhio avesse finalmente trovato la pace, un obiettivo, e desideri indugiare su di esso per la bellezza di un attracco dopo un errare infinito.

Nel prosieguo della vicenda, il Moretti attore/regista/uomo è alla ricerca di un posto tranquillo per lavorare ad un nuovo film, con lo sguardo che esita invece in maniera ossessiva sui rumori dalla strada, sul caos della superficialità, sull’impossibilità della comunicazione e la ridondanza dei media contemporanei (neanche troppo ormai: le speculazioni sulla televisione sembrano preistoriche) nel plasmare un nuovo uomo ormai intrappolato nella modernità e nella concezione di nuove idee circa la reale natura della coscienza e il modo di fare esperienza che agisce sulla superficie, piuttosto che sulla profondità (un discorso profetico, di cui raccogliamo le sequele oggi. Consiglio la lettura de I Barbari di Baricco, a tal proposito).

L’autore, in definitiva, è solo. E’ talmente isolato che nel racconto della sua malattia, nella parte finale, accentua il dialogo con lo spettatore, accompagnandolo nella narrazione, ricostruendo scene mai avvenute, interrompendole per continuare il monologo, cosciente che solo il fruitore dell’opera potrà sentire le sue parole. L’incomunicabilità si erge a metafora didascalica nel corso delle sequenze, ampiamente asservita alla vicenda della scoperta tardiva di un linfoma di Hodgkin che nessun medico riusciva a diagnosticare, barricati tutti dietro la loro mole di sapere e incapaci di creare un contatto con l’ammalato (“i medici sanno parlare, però non sanno ascoltare e ora sono circondato da tutte le medicine inutili che ho preso nel corso di un anno”).

E nel finale, lo sguardo vispo di Moretti nella macchina da presa, bevendo il sorso d’acqua vitale e interfacciandosi direttamente con lo spettatore, consapevole che l’unica maniera per fare cinema, a partire dalla ricerca spasmodica di un’idea di finzione, altro non è che il racconto di se stessi.

Angelo Armandi