Hungry Hearts, il declino allucinato della sanità mentale

Hungry Hearts, il declino allucinato della sanità mentale

December 23, 2015 0 By Angelo Armandi

hungryhearts22Hungry Hearts, regia di Saverio Costanzo. Questi cuori affamati vengono incastrati in una vicenda che lentamente soffoca e restituisce l’ossessione nei termini più paradigmatici. Il bambino indaco, come da titolo del romanzo di Franzoso, è l’oggetto espulso, materico, che racchiude nel deperimento del suo corpo l’imminente sradicamento della tragedia dalle inconsce (?) fondamenta della madre Mina (Alba Rohrwacher).
Il dissidio col marito Jude (Adam Driver), ampiamente sviscerato nel corpus centrale, non sembra scaturire dal lungo piano sequenza iniziale, dalla sostanziale natura comica, che mette in scena in apparente mancanza di claustrofobia il primo incontro della coppia, rinchiusa all’interno di un bagno pubblico. Eppure il monito è presente, accuratamente celato.
I due generano un figlio, e questo suggella l’incipit della tragedia, un baratro che strangola nelle morse asfissianti di una regia che stringe sui soggetti in misura crescente, dimenticando il mondo, riepilogato tuttavia in panoramiche della sterminata New York (un atteggiamento consapevole dietro la macchina, una brusca cesura che stordisce e confonde, illudendo, con sparuti sprazzi di luce e ambienti metropolitani all’apparenza familiari, che lo spettatore possa difendersi dall’incubo domestico costruito su strettissimi piani). Dall’iniziale camera fissa, il dramma si fonde con la tecnica e si fa tagliente, glaciale. La natura orrorifica della vicenda si disvela lentamente, in uno stillicidio (in)consapevole della propria mostruosità, virata sull’abnormità del quotidiano.

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Mina, in preda all’ossessione per la purezza del figlio, pretende l’esclusività del rapporto fisico, lo rende un cuore affamato sottoponendolo a dieta vegana, respinge le cure mediche e lo lascia lentamente morire d’inedia, impedendo al marito di mettere in atto possibili soluzioni. L’orrore, che più spesso ha evocato soluzioni polanskiane nella messa in scena, non trova però la medesima ratio (soprannaturale, metaforica, demoniaca), giacché le azioni vengono inanellate dalla diffidenza crescente nei confronti del prossimo e dell’ambiente. La casa, un tempo rifugio d’amore, diventa una trappola implacabile, inquadrata in spazi angusti con lenti distorte a grandangolo, contribuendo a ricreare il paradosso di un luogo apparentemente ampio, una gabbia inviolabile che deve preservare l’aberrazione di una purezza inesistente (psicosi degenerata a livello di coscienza).
L’ambiente, quale estrinsecazione fisica della psiche, esita in espressionismo allucinato, fatto di suoni ovattati e poi roboanti, con la paranoia che si insinua come ambiguità, evocando un mondo interiore soggetto a regole avvelenate e trasfuse al neonato in forma di malattia.
Mina, a differenza della basilare plasticità degli altri personaggi, rimane imprigionata nell’amore morboso per il bambino/oggetto (non viene mai chiamato per nome, a sottolineare l’idea del possesso). L’approccio di Costanzo, da cui lo straordinario valore dell’opera (al di là della critica alle tendenze vegane, che suona più come nutrimento per critici che un monito), è la struttura di genere. L’uso strategico delle musiche, atte a sonorizzare l’incubo; la progressiva allucinazione visiva che diviene sempre più eclatante e paranoica; una costruzione accurata delle atmosfere, del simbolismo, delle espressioni più minute della follia.

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Nonostante l’apparato tecnico si sforzi di evidenziare la compulsione crescente, è nella quotidianità che si annida l’incubo ed è ciò che maggiormente terrorizza. Le derive dell’horror riescono ad assuefare, ma la consapevolezza che la malattia sia racchiusa nell’abbraccio di una madre impedisce ogni possibilità di fuga ed è, sostanzialmente, ciò che dirige l’angoscia in anfratti irreversibili.
In questo senso il finale, insorto dopo la stasi di una storia potenzialmente avvitabile su se stessa, è forse l’unico possibile. Brutale, inaspettato, implacabile. Necessario. Un dramma familiare che potrebbe, in linea teorica (ma non del tutto), riguardare tutti quegli individui etichettati in maniera sibillina come “altrimenti sani”.

Angelo Armandi