Steve Jobs, parabola evolutiva di un uomo imperfetto

Steve Jobs, parabola evolutiva di un uomo imperfetto

January 21, 2016 0 By Gabriele Barducci

Ci sono film e film.
Ci sono film su Steve Jobs e film sulla Apple.
Della seconda categoria fa parte lo scandaloso Jobs con Ashton Kutcher. Un prodotto che si vende come biografia del fondatore della Apple ma che in realtà scopriamo essere nient’altro che un prodotto commerciale e pubblicitario della Apple stessa. Una cosa indecente.

Poi arriva una notizia, Aaron Sorkin, uno dei più talentuosi sceneggiatori di Hollywood, prende in mano un progetto di sceneggiatura partendo dalla popolarissima biografia dello stesso Jobs firmata da Walter Isaacson. Se ne parla per mesi, quasi anni, per poi perdersi di vista. Poi la notizia, il duo Fincher-Bale vengono presi come regista e attore. Poco dopo vanno via, la produzione è relativamente piccola, la sceneggiatura prevede poche location e un’impostazione narrativa molto teatrale e quindi non c’è il budget per pagare due nomi così importanti.
Ecco che salgono a bordo Boyle e Fassbender. Poi Kate Winslet. Poi Seth Rogen. Improvvisamente un progetto che veniva bocciato da tutto il web come fallimentare, comincia a vivere di una seconda vita.

Una premessa iniziale è dovuta: lo scrivente ha seguito passo passo la produzione del film. Trovo molto affascinante la figura di Steve Jobs (lui, non la Apple) e quindi dopo una mediocrata da denuncia come il film con Kutcher, il nome Aaron Sorkin portava alla luce speranza. Sì, tanta speranza di poter vedere un film da mangiare sia con gli occhi, che ascoltare ripetutamente decine e decine di volte.

Il film ci racconta quei fantasiosi “10 minuti” che deve affrontare lo stesso Jobs prima di una presentazione importante: il lancio del Macintosh, il lancio del Cube della NeXt e il lancio dell famosissimo iMac.
Tutti questi eventi sono preceduti da quei minuti di totale confronto con il mondo e le persone che ha avuto attorno per anni.

Steve Jobs, come il Billy Beane de L’arte di Vincere e lo Zuckenberg di The Social Network, è un disadattato, non riesce ad empatizzare con il mondo, si sente troppo importante o troppo lontano da quello che la realtà gli propone. Quindi ecco rifugiarsi totalmente in qualcosa.
Qui avviene la più grande destrutturazione del film: Jobs è tutto tranne che una brava persona.
Il Cube della NeXt? Un flop voluto, così da vendere qualcosa di falso alla Apple, pronosticando il suo ritorno nella società da lui creata. Neanche il Joker avrebbe potuto pensare un piano così diabolico per Gotham City.
Essenzialmente è uno schiavista che costringe i suoi dipendenti a fare miracoli. Lui non programma nulla, a fatica riesce a mettere una lampadina. Essenzialmente lui cosa fa?

“Io dirigo l’orchestra”

Steve Wozniak (un eccellente Seth Rogen) è la sporgenza a cui aggrapparsi per non scordare chi siamo e da dove abbiamo iniziato (importantissimi i flashback con loro due nel garage dove daranno vita a tutto).
Fassbender è il motivo per cui non era importante la fedeltà estetica al personaggio: Sorkin ci avvicina non tanto alla persona ma al suo carisma. Insomma la sceneggiatura privilegia una narrazione interiore per cui il ruolo poteva andare anche a Sylvester Stallone per quanto ci riguarda. L’attore parla parla parla, si muove, anche da piccoli gesti o piccoli sorrisi cerchiamo di capire il carisma di Jobs.
Come sappiamo, Steve Jobs viene adottato da neonato. La sua mania di controllo è sia un difetto ma anche un segno caratteristico di una mancanza che ha sempre avuto: Jobs necessità di una figura paterna, egli non riesce ad essere padre anche per questo motivo. Lisa sarà, secondo il test di paternità, al 98% sua figlia, ma lui si aggrapperà a quel 2%, quel numero relativamente piccolo secondo cui la donna da cui ha avuto la bambina “poteva tranquillamente essere andata a letto con tutti gli uomini degli Stati Uniti”. Lisa è un essere umano, chiaramente emotivo, quindi al di fuori del controllo di Jobs. Questo lo turba.

La sua ricerca di figura paterna approda a John Sculley, l’uomo della Pepsi, che decide di farlo diventare CEO della Apple. L’uomo più grande, l’uomo con esperienza e che forse non lo avrebbe tradito mai. Invece la pugnalata arriva anche da lui, ma non come siamo abituati a conoscere la storia, ma come necessità per un atteggiamento non più tollerabile da parte di Jobs. Il motivo? Non riuscire a controllare la sua stessa azienda.
Sogni, realtà e controllo. Jobs è un insieme di tutto questo. Il film è un ricco saggio di tutte quelle sfumature di un uomo che ha lavorato al minimo dettaglio, non per il prodotto, non per gusto personale, ma per vivere bene con la propria persona.

Jobs si scopre alla fine, anch’egli una macchina che non riesce a riparare, un meccanismo rotto insieme a tanti altri e forse solo accettare questa sua natura lo porterà al suo tanto amato Zen.
Infatti, oltre a parlarci del suo carisma, la scenografia del film aiuta tantissimo. Tre atti, quasi teatrali, e per ognuno, una scenografia che ne ricalca esattamente il pensiero e lo stato d’animo:

  • L’inizio, la presentazione del Macintosh, ancora nei residui del periodo libertino, tutto è molto pop, colorato, ornamentale.
  • Il centro, il Cube della NeXt, la costruzione della trappola, l’inganno, una scenografia molto confusa, mascherata, una sala piena di sedie una sopra l’altra pronte a cadere alla minima vibrazione
  • La fine, lo zen, la pace, l’accettazione, la figlia ora è riconosciuta e anche fonte d’ispirazione per i giovani, lo stile semplice, occhiali, maglia nera, jeans, luci bianche, rettangoli e quadrati, il minimalismo che si plasma alla realtà (anche tecnologica).
Sì, ma stai calmo, ok?

Sì, ma stai calmo, ok?

Questo è appena 1/10 di quel che è Jobs. Forse film troppo sentito per l’ammirazione che ho per la persona, ma sicuramente un film pieno, da vedere e rivedere, e dopo più di due mesi dalla proiezione stampa romana, ora posso finalmente rivederlo.

Gabriele Barducci