
Vinyl, il Cocaine Blues degli anni ’70 a New York
February 16, 2016New York, 1973. Frastuono elettrico, montagne di cocaina, bottiglie di vetro colme di Coca-Cola, Whiskey che cola dai volti, soffitti che crollano, cassetti pieni di droghe, Led Zeppelin, contratti discografici, fottuti tedeschi, gambe spezzate, teste sfondate. Ah, e poi c’è Juno Temple che s’intrattiene a letto come suo solito (vi sfidiamo a trovare un film in cui l’attrice non ci regali grosse soddisfazioni).
112 minuti, ecco quanto dura il primo episodio di Vinyl, la nuova serie tv targata HBO destinata a fare storia già da questa prima puntata, diretta niente meno che da zio Martin Scorsese, ideata dal regista e Mick Jagger (sì, quello dei Rolling Stones) e scritta da Terence Winter.
Ascesa e crollo (?) del discografico italo-americano Richie Finestra (Bobby Cannavale) nella New York marcia dei primissimi 70s, quando per terra c’erano più aghi che mattonelle, quando chi entrava in alcuni quartieri non sapeva se ne usciva sulle sue gambe, quando le fermate della metropolitana erano affrescate da ogni genere di scritta e popolate da ogni forma umana, quando gli squali di Wall Street si sedevano di fianco a barboni puzzolenti di piscio e gang rivali si accoltellavano per una bandana di troppo, quando gli alligatori cominciavano ad abitare le fogne e la mente dei più paranoici spaventati di non trovarsi più le chiappe attaccate al corpo ad ogni seduta mattutina sul cesso, quando ogni angolo di strada brulicava di vita e di colori e dove in un modo nell’altro tutti conoscevano tutti.
La potenza di Vinyl, presupponendo e confidando che mantenga un tale altissimo livello per tutta la stagione appena iniziata, sta tanto in una sceneggiatura che letteralmente corre dietro la storia, la supera, torna indietro, senza la minima sensazione di spaesamento, tolto l’effetto drogante che vuole ottenere, quanto in una cura per ogni minimo dettaglio scenografico. La regia di Scorsese, che con classe si auto-cita più volte, è il valore aggiunto ad un prodotto già di per sé perfetto in tutta la sua dissonanza. C’è il compiacimento di stare dando forma ad una propria bestia, cresciuta nelle mente dei creatori anno dopo anno e finalmente realizzata.
Il primo episodio è di una tale forza da rendere ridicolo l’appellativo di pilot perché quello che viene mostrato (e in che modo!) in quasi due ore è due spanne sopra alla maggior parte dei prodotti cinematografici propriamente detti, cioè quelli che sbarcano nelle sale per un paio di settimane prima di scivolare nel dimenticatoio, segno che la tv, in termini di tempi e modalità, sta entrando sempre più in competizione con il cinema in un processo che non può più essere ignorato e di cui sempre più registi si stanno rendendo conto.
Ma Vinyl è un mero prodotto-nostalgia degli anni ’70 newyorkesi? Non proprio. Ribolle ed esplode una lieve amarezza per un’epoca sepolta negli strati della città e nella memoria di chi l’ha vissuta (e Scorsese e Jagger c’erano eccome) e rivissuta da ogni nuova generazione che si è succeduta. Diciamocelo francamente, la migliore musica rock di sempre è compresa proprio nella decade 1967-1977 e Vinyl vi si colloca prepotentemente nel mezzo.
Questa nuova serie tv puzza di alcol incollato sul pavimento, di sigarette accese in continuazione, sa di cocaina aggrappata alle narici e da puntine di giradischi che tracciano un solco nella storia. Un arcobaleno di colori illumina ogni luogo, lanciando sprazzi cromatici sui volti degli svalvolati protagonisti della storia. Vinyl è meglio di un’ubriacatura molesta e più vero di un’allucinazione collettiva mentre attorno tutto il mondo crolla.
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