La Talpa, perdita dell’innocenza

La Talpa, perdita dell’innocenza

March 15, 2016 0 By Angelo Armandi

La Talpa, trasposizione dell’omonimo libro dell’ex spia inglese John Le Carrè. La scrittura del binomio O’Connor-Straughan e la regia dello svedese Tomas Alfredson reimpostano le coordinate della spy story con un approccio all’opera che sovrasta i dettami del genere per la realizzazione di un prodotto più eclettico.

Lo stesso Le Carrè ha narrato la vicenda in modo straordinariamente personale, quasi un flusso di coscienza destinato a coloro che, come lui, hanno vissuto in prima persona le tensioni della Guerra Fredda all’interno dei servizi segreti britannici. Abbandonando ogni forma di emotività, lo scrittore lascia che la vicenda si dipani tra pagine asettiche, sospese in un contesto appena accennato.

George Smiley, agente di punta del Circus di Londra, viene ingaggiato dal sottosegretario Lacon per scovare una talpa russa infiltrata ai vertici dei servizi segreti. Le Carrè, da tecnico, stila un rapporto, più che narrare una vicenda. Continui dialoghi racchiudono gli indizi, disseminati tra periodi infarciti di pseudonimi e burocrazia, con una meticolosità che rimanda al romanzo d’inchiesta, senza premura per la verginità del lettore. Le Carrè riproduce i fatti con il rigore di chi conosce a fondo la materia, allo scopo di districare i meccanismi di un’indagine di estrema complessità. I personaggi sono continuamente sospesi tra i dialoghi, in un presente che ha smarrito l’azione e che attinge sostanza da un passato strutturato in molteplici flashback. Interi dialoghi costruiscono le psicologie, descrivono il contesto, allontanano con prepotenza le timide parentesi descrittive e intrappolano la narrazione nelle voci altalenanti di una pièce teatrale(una strategia che era stata accolta anche nel noir, a partire da Gli amici di Eddie Coyle di George V. Higgins).

Il sassofono dei titoli di apertura del film è il preludio di una ricchissima messa in scena, costruita su uno sfondo fosco e slavato. L’immagine cinematografica restituisce alla vicenda un respiro più ampio di quello concessole dal libro, eppure decide di percorrere un binario diverso (e lo stesso accade per A most wanted man, di Anton Corbijn, adattamento di Yssa il buono). La trama è la medesima, ma l’intento poetico appare distante, al punto da considerare (ancora) il genere come un pretesto per una riflessione più intima sull’uomo. Le Carrè brucia dal desiderio di sviscerare la problematica politica nel corso della Guerra Fredda. Trascurando la profondità di pensiero delle singole pedine in campo (in senso letterale: i sospettati hanno nomi in codice secondo una vecchia filastrocca popolare: Tinker, Tailor, Soldier, Spy), lo scrittore si concentra sul decadentismo dei valori in Occidente e sul finto dualismo con il fronte sovietico. La potenza angloamericana ha smarrito ogni ideale, corrotto i costumi, combattuto una guerra ideologica per difendere i propri interessi, lasciando in ombra l’antica gloria per la rettitudine dell’individuo. Le manovre del nebuloso Karla, il burattinaio russo che per comodità viene ritenuto il cattivo di turno, non sono poi troppo distanti dall’atteggiamento ipocrita e moraleggiante del grande uomo occidentale.

La scrittura del film preferisce focalizzare l’attenzione su un aspetto differente. La guerra delle idee e la corruzione degli individui sono il punto di partenza, indispensabile per penetrare le psicologie dei personaggi. Ad Alfredson non interessano le cause del declino degli uomini, quanto gli effetti sulle loro vite, realizzando un monumentale affresco introspettivo.

Il film, che avrebbe potuto abbondare nella verbosità e nel tecnicismo, preferisce tradurre i concetti in dialoghi succinti, lasciando all’immagine il compito di elaborare la solitudine. Le inquadrature concedono la visione di uno scenario algido, che evoca con potenza la nostalgia e il rimpianto per le cose passate. La disillusione è affidata al silenzio, ai campi vuoti che si restringono con lentezza, agli interni opacizzati dalle luci fioche, immersi in una struttura registica sobria, dall’incedere pacato (un meccanismo che esalta in maniera prepotente l’idea di solitudine, come aveva fatto il noir di Jean-Pierre Melville ne Le Samurai, in cui è esplicita l’idea di una condizione umana che si eleva a guidare e costruire il genere stesso: “Il n’y a pas de plus profonde solitude que celle du samouraï. Si ce n’est celle d’un tigre dans la jungle…”). Gary Oldman, nei panni di George Smiley, costruisce e vivifica un intero personaggio, sempre calibrato e confinato in una rabbia carezzevole, sommerso dai paradigmi della Guerra Fredda e dell’indagine in corso (elementi solo intuibili nel romanzo, in cui “grassoccio” era la più grande concessione dello scrittore per una seppur blanda costruzione mentale del lettore).

Mentre il mondo intero subisce lo scontro tra i due colossi, la piccola Inghilterra deve destreggiarsi per non lasciare agli USA il primato nei servizi segreti, e l’ancor più piccolo Smiley (il quale, nella pochezza della sua mimica, non sorride mai) cerca di riappropriarsi delle proprie coordinate, fronteggiando la forza centrifuga che lo ha travolto, tra il licenziamento, l’indagine segreta, il tradimento della moglie (in aggiunta a quello della talpa) e il dolore della solitudine.

L’idea del tradimento e la miseria del presente vengono rapportati al passato tramite flashback che, a differenza del mero espediente narrativo che serviva al libro per ricostruire le vicende, funge più da contrasto con un mondo perduto in cui tutto era bello, vigeva l’onestà tra i colleghi e la lealtà restava il valore più alto. La pellicola è un continuo rincorrere il passato innocente, o filtrato come tale per aggrapparsi ad una qualche idea di bellezza, nel tentativo di fuggire le proprie colpe. La lealtà potrebbe anzi essere il nocciolo del film, spogliata di ogni ideale politico e plasmata invece di una grandissima umanità. La perdita dell’innocenza tra ognuno di essi non è mai troppo esplicita, poiché vive di un continuo accennare, un reiterato concedere piccoli sprazzi. Diverse vicende personali trovano la dignità che il libro aveva preferito negare, confluendo armoniosamente in un ricco mosaico che è sintesi perfetta di un’intera generazione di rinnegati.

L’eleganza della messa in scena è necessaria a sottolineare il dualismo tra forma e sostanza. La delicatezza dei primi piani e dei dettagli, la malinconia della colonna sonora, i piani sequenza a cui è affidato il senso della narrazione, la recitazione teatrale: ogni aspetto tecnico si incasella in un universo di poesia che contrasta violentemente con la miseria nella quale sono imprigionati i corpi. La Talpa di Alfredson vive quindi in una dimensione più intima, quasi esistenzialista, nella quale la consapevolezza del tradimento è essenza stessa della colpa.

Che la talpa abbia o meno tradito un intero Paese e un’intera idea di Mondo, il montaggio sonoro del finale, affidato a La mer di Julio Iglesias, con l’evocazione di una bellezza che è sinonimo di innocenza, riafferma che ella ha tradito, prima di ogni cosa, gli amici di una vita:

“La mer
Les a bercés
Le long des gloves clairs
Et d’une chanson d’amour
La mer
A bercé mon coeur pour la vie.”

Angelo Armandi