
Truth, a difesa del ruolo e dell’etica del giornalista
March 17, 2016Di norma ci perdiamo in chiacchiere quando parliamo di film e non riusciamo mai a dare un giudizio complessivo, chiaro e pertinente al titolo in oggetto, quindi una premessa è necessaria: lo scrivente si trova in quella Terra di Mezzo per cui non riesce a catalogare Truth come un buon film, ma neanche come brutto. Insomma, i dubbi sulla natura stessa del prodotto ci portano in confusione.
Ne 2004 la redazione di ’60 Minutes’, storico programma di inchiesta della CBS ha tra le mani una notizia potenzialmente succulenta: in gioventù, George W. Bush, ha usato la sua influenza per farsi prendere nella Guardia Nazionale per evitare l’invio di Vietman. Nel periodo in cui viene trovata e affrontata la notizia, gli Stati Uniti sono in pieno periodo di rielezione e alla casa Bianca c’è proprio lui, Bush.
Scritto e diretto da James Vanderbilt (sua la firma sulla sceneggiatura di Zodiac) Truth è una sorta di ibrido nelle proprie intenzioni.
Andando a scavare nella vicenda scopriamo che questa è catalogata come uno dei casi massimi di cattivo giornalismo. Non un esempio da prendere come modello o in considerazione diciamo, quindi su che binari potrebbe muoversi il film?
Il cast è vario e importante, Cate Blanchett a interpretare l’autrice del programma e il leggendario Robert Redford nei panni del conduttore. A contorno Topher Grace, Elizabeth Moss, Dennis Quaid e Bruce Greenwood.
Ma andiamo per gradi; perché la vicenda è stata catalogata come cattivo giornalismo? Giorni dopo la messa in onda del servizio, emergono diverse testimonianze che mettono in ombra il lavoro di inchiesta effettuata da tutto lo staff, le prove in loro possesso sono al 90% false e tutte le verifiche sembrano confermare la natura artificiosa dei documenti in loro possesso, ma tutti gli autori sono convinti del contrario, anche in virtù di diverse testimonianze che nell’evoluzione degli eventi, hanno cambiato versione.
Il film si basa tutto su questo bivio: a chi credere? Come per Zodiac, anche qui viviamo la certezza della veridicità delle prove a loro favore, ma l’impossibilità di verificarle. Avere l’assassino davanti gli occhi, essere sicuri della sua natura, ma nessuna prova che lo confermi ufficialmente.
Truth diventa improvvisamente un film che lavoro molto sul titolo, verità. La vicenda viene quasi accantonata, come il resto del cast ad eccezione della Blanchett e Redford, per ragionare sull’etica e il ruolo del giornalista.
Siamo lontani anni luce dalla bellezza di Spotlight dove i riflettori erano puntati tutti sul ruolo del giornalista; qui tutto si concentra sulla missione di questo mestiere, far emergere e portare a tutti la verità.
Il sistema è corrotto perché andiamo contro l’attuale Presidente degli Stati Uniti? Tutti ci credono dei detrattori dell’inquilino della Casa Bianca? Può e deve importarci poco, il giornalista che è in noi deve portare avanti il coraggio (altra parola che sentiremo pronunciare spesso da Redford) di affrontare a testa alta tutto questo.
Truth essenzialmente vive di questa contrapposizione: raccontare un evento di cattivo giornalismo (tutti troppo presi ad andare in onda che non hanno cercato la sicurezza delle fonti), ma che usa questo stratagemma per parlare dell’etica del giornalista. Forse non il migliore caso o film per affrontare il tema, considerando che viene proprio post Spotlight, riesce comunque a lasciare un buon retrogusto, nonostante il primo boccone risulti amaro, tanto da ritrovarci ad avere ancora fame.
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