Bosch, vivere e cercare di non morire a Los Angeles

Bosch, vivere e cercare di non morire a Los Angeles

March 21, 2016 0 By Simone Tarditi

bosch posterIl suo nome è Bosch. Harry Bosch. In realtà di nome fa Hieronymus, come il famoso pittore olandese che tra ‘400 e ‘500 ha dipinto spettrali, apocalittici e meravigliosi paesaggi multiformi. La produzione è Amazon, da anni nell’occhio del ciclone per le discutibili condizioni in cui fa lavorare i suoi dipendenti (non un caso isolato tra le multinazionali che governano il mercato), che tenta di fare il salto anche nel mondo dell’intrattenimento televisivo puntando tutta la posta in gioco su questo Bosch, giunto alla seconda stagione in America e ancora alla prima in Italia sulle reti a pagamento del Berlusca. Tra i futuri progetti di Amazon, ricordiamo anche la serie tv affidata al maestro Woody Allen, la cui uscita prevista è per la fine del 2016 e di cui iniziano a circolare le prime indiscrezioni sul cast solo ora. Per il momento salutiamo il cantore di New York e dirigiamoci dal lato opposto degli Stati Uniti, sulla West Coast.

Il viso spigoloso del detective Bosch, interpretato da Titus Welliver (vi ricordate che stronzo di prima categoria in The Good Wife?), trasuda di arroganza, scazzo perenne, rabbia contro un mondo di cui non apprezza il cambiamento costante. Insomma, Bosch è il classico sbirro fino al midollo, incurante delle leggi scritte e che risponde ad una morale tutta sua, distinguendo tra Bene e Male in una maniera che non è apprezzata o capita fino in fondo da chi gli sta intorno.

Al di là dei casi di omicidio, le indagini, gli interrogatori, le irruzioni nelle abitazioni, le informazioni estorse con violenza, le vendette personali, i regolamenti di conti, gli inseguimenti da maratoneta, i rocamboleschi arresti, la serie tv vuole raccontare la storia di un detective che costantemente sguazza nel marciume losangelino (Hollywood è una terra fuori legge, al pari di un qualsiasi scenario western) e nel substrato criminale di Las Vegas (dove vivono sua figlia e la sua ex moglie, che diventano personaggi chiave di tutta la seconda stagione).

Bosch ama L.A., ma è perfettamente conscio che sia solo un grosso deserto, proprio come la capitale del Nevada dove vivono i suoi affetti più cari. Il suo rifugio, un’abitazione ottenuta con i compensi dei diritti di un soggetto cinematografico fortemente autobiografico è l’emblema di tutto il personaggio. Il poliziotto vive sulle colline che si affacciano sulla gigantesca città in una villa alla Frank Lloyd Wright che tanto ricorda quella in cui vive il personaggio di James Mason e nella quale s’intrufola Cary Grant in North by Northwest (A. Hitchcock, 1959) o quella in cui si ritrovano gli sceneggiatori comunisti nel recente Hail, Caesar! (Fratelli Coen, 2016). Un vero capolavoro architettonico, tanto bello quanto fragile: una minima scossa di terremoto la farebbe crollare come un castello di fiammifero. Scopate selvagge in piena notte, qualche alcolico consumato in solitaria contemplando il panorama, ma soprattutto una ricerca di calma e relax pseudo-zen ascoltando jazz a profusione (Miles Davis, soprattutto) e cercando di scacciare di dosso lo schifo metropolitano del giorno appena concluso o di quello che sta per iniziare.

bosch house

Questo è Bosch, il personaggio. La serie tv, però, non entrerà negli annali della storia della televisione. A breve vedremo perché, ma prima urge scomodare un illustre uomo di cultura (alta e bassa, senza grosse distinzioni), mancato di recente:

Nei telefilm polizieschi (…) accade sempre (fate attenzione, sempre) che, quando il poliziotto entra e inizia a fare domande, il cittadino continua a fare i comodi suoi, si affaccia alla finestra, finisce di cuocere le sue uova con pancetta, riassetta la stanza, si lava i denti e poco manca che non vada a orinare, va al tavolo a firmare delle carte, corre al telefono, si muove insomma come uno scoiattolo facendo del suo meglio per voltare le spalle all’inquirente, e dopo un poco gli dice sgarbatamente che se ne vada perché lui (o lei) ha da fare. Ma è il modo? Perché i registi si ostinano a instillare nella mente dei loro spettatori che gli agenti di polizia vanno trattati come importuni piazzisti di aspirapolvere? Direte che l’inquisito scortese fa sempre più scattare il desiderio di vendetta dello spettatore, che poi godrà della vittoria del detective umiliato, ed è vero. (…) La verità è che il regista di telefilm avverte che, se l’interrogatorio dura più di alcuni secondi, non possono tenere due attori di faccia, e si deve in qualche modo movimentare la scena. E per movimentarla si fa muovere l’inquisito.

(Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe, Milano, La Nave di Teseo, 2016, pp. 188-189)

Si possono prendere queste parole e applicarle a Bosch. La serie tv non eccelle per sceneggiatura (tratta dai romanzi di Michael Connelly), regia, montaggio, e pertanto s’inserisce placidamente in quel dimenticatoio dove scompare presto la stragrande maggioranza di simili prodotti televisivi, con le dovute e singole eccezioni. Già dopo qualche puntata si possono ipotizzare colpevoli e moventi (non che questa sia una nota di demerito), le comparse sembrano intimorite dagli attori principali, il cognome Delacroix nella prima stagione viene pronunciato 9 volte su 10 nella maniera sbagliata e la restante giusta è probabilmente un puro caso, ci sono costanti errori di continuità, insomma, non è una serie che verrà ricordata per la sua “perfezione formale”.

bosch gif

Allora perché guardare Bosch? Perché ci restituisce il poliziesco in tv nella sua forma più pura, evitando elementi sempre più in voga nelle serie degli ultimi anni come piste sataniche, riti occulti e personaggi alla deriva di loro stessi. Harry Bosch è in gamba, non odia se stesso, non compie filosofici voli pindarici sul significato dell’esistenza mentre si reca sul luogo di un omicidio. Anzi, Harry Bosch non parla neanche più di tanto: risponde per monosillabi alle domande che gli vengono poste e quando interroga qualcuno va dritto al punto della questione. Bosch, come il jazz, non ha bisogno di parole.

Simone Tarditi