
Animazione giapponese: non solo Studio Ghibli
March 24, 2016Vero Cinema è anche animazione giapponese. Peccato che quando si menziona questo genere cinematografico, il primo nome a spiccare è quello di Hayao Miyazaki e del suo Studio Ghibli. Pur riconoscendo la bravura smisurata del Maestro, è doveroso palesare che non è il solo regista ad aver creato capolavori. L’ombra della sua fama ha oscurato notevolmente diverse pellicole davvero valenti di altri suoi colleghi di lavoro, che oggi, in questa sede, vogliamo consigliarvi di recuperare.
Quattro film d’animazione giapponese, quattro opere che non devono passare in sordina, quattro titoli da ammirare a bocca aperta.
Può un’anima peccatrice redimersi e ricominciare un nuovo percorso di vita? Questa è la domanda che il regista Keiichi Hara ci pone col suo film Colorful (カラフル Karafuru, 2010), una pellicola disarmante e spiazzante che porta lo spettatore a farsi un esame di coscienza, cercando le risposte dentro di sé. Un’anima di un defunto viene scelta per intraprendere un addestramento di “redenzione spirituale” in cui dovrà vivere all’interno del corpo di un quattordicenne che ha tentato il suicidio: Makoto Kobayashi. Il suo compito sarà quello di ricordare i peccati commessi nella sua vita precedente cercando di rimediare ai suoi errori, ed oltretutto comprendere le ragioni che hanno portato il giovane Makoto a togliersi la vita.
L’anima, il cui nome ci è sconosciuto, ha un duro viaggio finale da affrontare: conoscere se stesso. Non sarà facile adattarsi ad un corpo a lui del tutto estraneo, tanto meno familiarizzare con una vita che non gli appartiene, circondato da genitori premurosi ed in pena per lui e compagni di classe che lo tengono a distanza.
Colorful è la nitida fotografia di una generazione giapponese più preoccupata a “fare” che ad “essere”, di una nazione chiusa nel silenzio, di una famiglia che nasconde le briciole sotto al tappeto invece di discutere delle problematiche che affliggono la quotidianità. Gli adulti in questo film non sanno comunicare con i giovani e questi ultimi preferiscono farsi carico di ogni sofferenza piuttosto che affrontare gli ostacoli che si presentano davanti. È più semplice fuggire che lottare, ma un atto come quello del suicidio è un gesto che non andrebbe mai ignorato. Keiichi Hara, attraverso il personaggio dell’anima peccatrice a cui è stata concessa una seconda possibilità, vuole offrire al mondo una visione di fiducia e speranza, suggerendo il confronto come soluzione ad un’avversità. Insomma, Colorful è senza ombra di dubbio un film anti-suicidio.
Molti sono i temi delicati affrontati in questa pellicola: la solitudine, la mancanza di comunicazione fra le mura di casa, la prostituzione minorile, il bullismo, la competizione scolastica. Ognuno di questi viene esaminato con estrema cura e delicatezza, omettendo di mostrare le scene più cruente (come l’assunzione di farmaci da parte di Makoto per togliersi la vita o gli incontri nei love motel della sua compagna di classe con uomini di una certa età), queste ellissi lasciano lo spettatore all’immaginazione.
Colorful un film sui colori dell’anima umana, colori che variano nel tempo, dalle tinte tenue a quelle più cupe, perché infondo, come suggerisce il nostro protagonista, “Le persone non hanno un solo colore, ma moltissimi. Nessuno sa quali siano i propri veri colori, quindi va bene avere una vita piena di colori. Continua a vivere così!”.
Ciò che dobbiamo fare è apprezzare ogni sfumatura di noi stessi, perché imparare a convivere con la propria persona è il fine più grande e soddisfacente per l’essere umano.
Passiamo adesso a Makoto Shinkai, i cui film d’animazione sono stati anche trasposti in manga (ricordiamo 5cm al secondo, Viaggio verso Agartha, La voce delle stelle), parlandovi del suo ultimo film di animazione: ll giardino delle parole (言の葉の庭 Kotonoha no niwa, 2013). La sensibilità dei protagonisti risalta nella profondità degli sfondi, nei colori del parco, nel suono della pioggia, regalandoci un’esperienza visivo/uditiva poetica e dolce amara.
Tutto ha inizio una mattina nella stagione delle piogge. Takao ha 15 anni, salta la scuola per rifugiarsi nel silenzio del parco di Shinjuku, Tokyo. Vede che il suo solito posto, un gazebo accanto al ponte sul lago, è stato già stato occupato da una giovane donna “in carriera” (a giudicare dal tailleur che indossa).
Ecco l’incontro di due solitudini: il fuggire dalla folla, dal caos della vita quotidiana, il loro bisogno di fondersi nel verde del giardino giapponese, la necessità del silenzio quando le parole e i pensieri sono troppi. Condividono la pioggia.
Sono seduti uno davanti all’altro ma ognuno rimane racchiuso nel proprio mondo: Takao abbozza dei modelli di scarpe femminili sul taccuino che ha con sé, mentre la donna (di cui non conosciamo il nome) beve birra e mangia cioccolata, il suo sguardo è lontano.
Poi il senso dell’attesa si scheggia:
“Il rombo del tuono, nel cielo nuvoloso
forse pioverà.
Quando accadrà, resterai con me?”
La donna citerà al ragazzo un tanka (una poesia di 5 o 7 sillabe contenuta nel man’yoshu, la più antica raccolta di poesie giapponesi) prima di andarsene.
Continuano le mattinate piovose e gli incontri da speranza diventano certezza. I due iniziano a schiudersi e a rivelarsi attraverso le parole. Takao confida alla giovane donna il proprio sogno di diventare calzolaio. Lui la vede come “il mistero del mondo” e cerca di andare oltre all’impressione della superficie fragile di lei. Ma non basta. Prima che la pioggia finisca e porti il sereno, facendo del giardino un luogo sconosciuto, Takao vorrà aiutarla a camminare. E nel farlo ne sarà a sua volta aiutato.
Il piede nudo di lei nelle mani di lui è un contatto tra due realtà distanti che si sfiorano: un momento delicato e sensuale fermo nello scorrere del tempo. Lo spettatore ha come l’impressione di essere nel quadro di Claude Monet: “Il ponte giapponese”.
Le gocce della pioggia si confondono nel lago mentre le note del piano (del compositore Daisuke Kashiwa) amplificano l’eco del verde intorno, i contrasti luce/ombra diventano un tutt’uno con le sfumature dell’acqua e degli alberi. Non esistono più confini. È l’attimo in cui la natura ci parla di tutte le cose: sta a noi coglierne il vero significato.
Pioggia. Gocce da direzioni diverse scendono sul parabrezza unendosi in un unico rigagnolo e cadono giù ancora, come sogni che si fondono in un qualcosa di più grande. La terza pellicola di cui vogliamo parlarvi è Paprika – Sognando un sogno (パプリカ Papurika), quarto lungometraggio del regista Satoshi Kon, prematuramente scomparso nel 2010. Tra i suoi precedenti capolavori ricordiamo Perfect Blue, Millennium Actress e Tokyo Godfathers.
Kon, già dal 1998, pensava a un modo per riadattare l’immaginario visionario contenuto all’interno del romanzo “Paprika” dello scrittore Yasutaka Tsutsui pubblicato a puntate nel ’91. Il progetto inizia a concretizzarsi solamente quando Kon riceve la proposta da parte del romanziere di dare vita alle parole del suo libro. Il film partirà da zero e vorrà essere un’esperienza visiva, una forma di intrattenimento con elementi di psicoanalisi. Kon lavorerà per due anni alla sceneggiatura del copione e dello storyboard, prima di presentare la sua Paprika in anteprima mondiale alla 63esima Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Un team di ricercatori e psicoterapeuti, tra cui la Dottoressa Atsuko Chiba, sta sperimentando la DC Mini: un dispositivo ideato dal Dott. Tokita (un genio-naïf-ben in carne) grazie al quale è possibile entrare nei sogni dei pazienti e curarne ansia e psicopatologie legate al subconscio. Paprika è l’alter-ego onirico, nonché la parte più irrazionale, spontanea, gioiosa, della dottoressa che si è offerta volontaria per il progetto.
La sparizione improvvisa di un prototipo della DC Mini fa scattare immediatamente le indagini da parte del detective Kogawa Toshimi. Si ha l’inseguimento continuo al “presunto ladro”: Paprika e Kogawa salteranno da una visione onirica all’altra, rompendone le barriere spazio-temporali e fiondandosi in universi paralleli (degni dei mondi creati dallo scrittore Haruki Murakami). Si alterneranno non solo scene dai diversi generi cinematografici ma anche metamorfosi dei nostri protagonisti in costante trasformazione (corpi che si ingrandiscono e rimpiccioliscono come se ci trovassimo davanti ad una versione distopica de Alice nel paese delle meraviglie), il tutto ben condito dal coloratissimo vortice pieno zeppo di cianfrusaglie che prendono vita, come se si ribellassero al troppo tempo trascorso in un angolo della casa dimenticato da tutti.
Nella corsa, il nostro detective non riuscirà a sfuggire ai traumi ed ai fantasmi che si porta dietro dal passato: li ritrova costantemente nei volti delle persone che sogna, nei flussi di coscienza e nei numerosi omaggi cinematografici contenuti all’interno di Paprika (Satoshi Kon, nelle sue opere, non esita mai a citare scene tratte dai film). Si renderà conto ben presto che aggrapparsi a ciò che non è reale non gli permetterà di rivivere veramente il passato. Nemmeno rifugiandosi nei sogni.
Nel frattempo qualcuno ha fatto precipitare ulteriormente la situazione, appropriandosi dei singoli sogni delle persone ed imponendo loro un’enorme illusione collettiva. Il risultato è che la società sta sognando a occhi aperti senza accorgersene: distinguere il confine tra finzione e realtà è impossibile.
Lo spettatore si domanda se anche noi saremo in grado di svegliarci e di riappropriarci dei nostri desideri, di ciò in cui veramente crediamo, se basta condividere un sogno senza dimenticarlo o farselo rubare come è capitato ai personaggi di Paprika.
“We are such stuff as dreams are made on,
and our little life is rounded with a sleep”
William Shakespare, The Tempest.
Veniamo ora al quarto ed ultimo film di cui abbiamo il piacere di parlarvi. Non è semplice decifrare la poetica ed il significato che sta dietro ad ogni opera del regista Mamoru Oshii, uno degli autori più controversi dell’animazione giapponese. Probabilmente è quasi impossibile cogliere l’anima di Tenshi no Tamago (letteralmente tradotto significa “L’uovo dell’angelo”), il suo miglior film che vede la partecipazione del character designer Yoshitaka Amano. Dunque il suggerimento che possiamo darvi è quello di ammirarlo e godervelo in tutta la sua bellezza, lasciandovi trasportare dalla suggestiva colonna sonora e dai paesaggi onirici.
Tenshi no Tamago è un film atipico, un’esperienza mistica che cattura lo spettatore interrogandolo per tutto il tempo sul senso dell’esistenza. In un mondo inghiottito dall’oscurità dove non sembra esserci alcun segno di civiltà, una bambina custodisce gelosamente un uovo. A tenerle compagnia in una nottata di pioggia, un soldato misterioso che brandisce un fucile a forma di croce, che nutre molto interesse per l’uovo della bambina.
Molti sono i riferimenti alla religione ebraica e cristiana contenuti in questo film, per citarne alcuni: l’arca nella quale si rifugia la bambina, la figura dell’angelo, l’albero della vita raffigurato su una parete, il fucile del soldato ed i pesci (o per meglio dire, le loro ombre). L’intera pellicola ruota attorno all’uovo ed al rapporto che la bambina ed il soldato hanno nei suoi confronti. Se la giovane è ciecamente convinta che in esso ci sia un segreto, un tesoro prezioso da proteggere cautamente, l’uomo diffida del racconto della bambina e fatica a resistere al desiderio di venire a capo del mistero attorno all’uovo. Prendendo in esame ciò, la bambina incarna la fede religiosa, mentre il guerriero uno spirito scientifico, un voler verificare coi propri occhi quanto ci sia di vero o meno.
Chi nella propria vita non si è aggrappato ad una speranza per andare avanti? Come si può reagire dinanzi alla verità schiacciante che tutto ciò in cui credevamo è solamente una bugia, un sogno creato dalla nostra stessa mente? Tenshi no Tamago si interroga sul senso della vita, dell’esistenza umana ma anche quella di un’entità superiore.
Ad un certo punto, vediamo degli uomini armati rincorrere delle ombre di capidogli, cercando a tutti i costi di stanarli e colpirli. Non è forse questa una metafora dell’uomo che dedica le proprie giornate alla caccia di qualcosa di cui nemmeno lui conosce l’identità? Mamoru Oshii però ci mette davanti ad una cruda realtà, cioè che non esiste alcuna figura divina, ma solamente una falsa credenza che serve all’essere umano per andare avanti, per darsi uno scopo, una motivazione per essere vivi. L’umanità è alla deriva, non c’è salvezza per nessuno. Non è un caso che il mondo nel quale è ambientato il film, sia spoglio, decadente, in totale rovina.
(A cura di Mariangela Martelli, Angelica Lorenzon)
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