
Maps to the Stars, un’idea di abbandono morale
March 25, 2016Maps to the Stars è un’opera di straordinaria complessità, che sintetizza e rinnova una poetica in costante evoluzione dagli albori della cinematografia del regista David Cronenberg. La deriva di Hollywood, i cui punti cardinali sono inseriti in una mappa fisica delle abitazioni delle celebrità, è il pretesto per raccontare una tragedia familiare, che a sua volta riesce ad incarnare il declino di un’intera società nel pieno di un decadentismo post moderno.
Il discorso sulla mutazione della carne consentì al regista di sviscerare, attraverso la forma dell’horror, il problema della moralità all’interno di determinate categorie sociali. La prevaricazione delle leggi della Natura è stata una delle più vive manifestazioni di timore primordiale per la civiltà occidentale, nota agli antichi Greci come ὕβϱις (ùbris), da cui derivavano punizioni divine particolarmente severe (fu il caso di Prometeo, tra gli altri, colpevole di aver donato il fuoco agli uomini). Cronenberg scorse le tracce della tracotanza dell’uomo contemporaneo nell’abuso della tecnologia scientifica, con l’idea di manipolarla senza alcuna forma di deontologia (Il demone sotto la pelle; La covata malefica), con conseguenze che sfuggono ad ogni controllo ed esitano invariabilmente nella punizione più efficace, ovvero la mutazione del corpo in forma orrorifica (La mosca; Rabid). La malattia, appannaggio dei singoli individui tacciati di immoralità, è rappresentata in forma ripugnante, sanguinolenta o aberrante, che se da un lato riesce immediatamente a collegare il peccatore al peccato, dall’altro impedisce allo spettatore di identificarsi nel problema, rassicurandolo che quell’orrore, l’espressione di un male che origina dal proprio corpo, non potrà mai colpirlo.
Maps to the stars rappresenta invece l’opera pienamente matura di un Cronenberg diverso, che cominciava ad emergere in Videodrome, ancora incasellato in una struttura viscerale ma già proiettato in una dimensione più teorica. Negli anni la sua riflessione sulla moralità dell’individuo si è allontanata dalla follia dei singoli per estendersi all’intera società occidentale. L’immagine ha perso i connotati di carnalità e la malattia si è spostata su un piano ideologico. La mutazione è racchiusa all’interno delle parole (Cosmopolis, con la stordente verbosità dei dialoghi, tanto ricchi nella forma quanto vuoti o distorti nei contenuti), che recano tutta la bestialità dell’uomo. Gli individui che popolano l’universo neo-cronenberghiano, sempre più simile al nostro al punto da sovrapporsi, molto spesso non agiscono neanche: parlano solamente, e nelle loro intenzioni o idee si nasconde la mostruosità. I discorsi subiscono continui paludamenti, deviano dai concetti principali per affrontare argomenti senza scopo, privi di alcun interesse, nel pieno della noia e superficialità.
I discorsi di Maps to the stars, frutto della scrittura di Bruce Wagner in perfetta simbiosi con le ossessioni di Cronenberg, ruotano attorno alle vicende parallele di alcune celebrità di Hollywood, preda delle loro ossessioni, nevrosi e malattie psichiatriche, in un’apparente o imposta normalità. L’interesse del regista nei confronti dei meccanismi dell’inconscio (un intento reso programmatico in A dangerous method) si ricollega alla sua attenzione per l’influenza della società nel plasmare la coscienza e dominare la psiche, fino a renderla il reale prodotto dell’orrore. Il surrealismo non può più vivere nella carne, ma deve essere espressione di una mente ammalata. Quindi, nella forma lussureggiante del film, l’oppressione dell’inconscio emerge tramite ricorrenti visioni che si inseriscono improvvisamente nella realtà, turbando i personaggi fino a lasciarli inermi nel mondo.
La mostruosità della gente di Maps to the stars risiede proprio nella naturalezza con cui conducono e concepiscono le loro derive morali, la manifestazione più sfacciata della perdita di ogni valore. L’impudenza, l’antica colpa tanto cara ai Greci e che spaventava (in fondo) gli individui che popolavano le prime pellicole di Cronenberg, è condotta con una naturalezza che sconcerta. Questi personaggi non hanno niente di ripugnante, sono anzi attraenti per lo stile di vita che conducono. Hanno disinteresse per gli altri umani, non sono in grado di provare alcuna empatia. Si drogano e abusano di farmaci, ma questa è storia che ha già assuefatto (il che è sufficientemente mostruoso). Vivono di apparenze e sono così spontaneamente sgradevoli e meschini da credere che non abbiano coscienza. Hanno bisogno di sparare dei colpi di pistola per capire se sono in grado di provare delle emozioni in un’esistenza altrimenti piatta (espediente già adottato in Cosmopolis, con Robert Pattinson in un ruolo che finalmente esaltava la sua unica espressione facciale, la stessa di Maps to the stars e The Rover). In loro prevale l’idea del consumismo e del profitto, un’altra grande parentesi del discorso del neo-Cronenberg. Si preoccupano che il mondo scopra i loro crimini, ma non del fatto di averli compiuti. E parlano di scatologia in maniera sfacciata, senza considerare che la merda e il piscio di cui ridono sono la loro più esatta caratterizzazione.
Questi meccanismi non sono raccontati nella forma della ripugnanza, ma con assoluta naturalezza ed eleganza. La bellezza di Julianne Moore sintetizza alla perfezione l’edonismo alla base della frenesia dell’apparenza (la più evidente deriva della generazione social), che racchiude però una personalità volgare, oltre che psicotica, immortalata nella sequenza irripetibile della tazza del water.
Si racconta della corruzione della civiltà, dell’abbandono morale, di una malattia invisibile che ha contagiato tutti. Mia Wasikowska è il vero elemento paleo-cronenberghiano del film. Incarna in un unico corpo (il solo che reca una mutazione nel senso tradizionale, anche se attenuata, nella forma di cicatrici da ustione) le antiche malattie che avevano ossessionato il regista. Lei è l’anello di congiunzione tra le varie vicende narrate nel film, oltre che l’erede dell’idea della contaminazione del corpo tra consanguinei (Inseparabili) e l’aberrazione di un sentimento intaccato dalla malattia (M. Butterfly; Crash). Ma l’aspetto più viscerale e suggestivo dell’opera, sempre affidato alla Wasikowska (da Stoker spilla inquietudine ad ogni inquadratura) è legato all’idea, anch’essa di matrice greco classica, dell’ereditarietà del male. I figli recano sulla pelle, e in questo caso anche nel cervello, le colpe dei genitori, e perpetuano il male come punizione, lasciando alla morte, il massimo grado di libertà, la possibilità di estinguere ogni peccato.
La mutazione, in tutto questo, non fa parte dell’altro, del fisicamente diverso, della carne che cambia. E’ un processo subacuto che non risparmia nessuno ed è talvolta così marcato da aver creato assuefazione. Riprendendo il discorso sulla mostruosità dei corpi del primo Cronenberg, è evidente che la rinuncia alla forma orrorifica riduce sicuramente l’impatto visivo, ma avvicina lo spettatore alla narrazione, fino alla totale identificazione con i reietti che si muovono nel suo universo di desolazione.
In altre parole, il film è di gran lunga più crudele di ogni altra opera precedente, perché è la sola in grado di mostrarci, senza neanche troppe difficoltà, quanto facciamo schifo.
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