Dante Ferretti, l’artigiano che crea mondi immaginifici

Dante Ferretti, l’artigiano che crea mondi immaginifici

March 30, 2016 0 By Francesca Sordini

Questo articolo è un omaggio tardivo a Dante Ferretti, verace marchigiano, genio inconsapevole e grandioso scenografo. Intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa il 13 marzo scorso, Ferretti ha parlato a lungo delle sue importanti frequentazioni, delle prestigiose committenze, della sua infanzia e dei premi vinti assieme alla moglie (in tutto sono quattro, e a casa troneggiano su una comunissima mensola Ikea).

Dante Ferretti, in tempi in cui tutti si professano artisti e hanno un ego ipertrofico di difficile soddisfazione, ci insegna che il talento non s’impara, che spesso si nasce geni inconsapevoli, e che il lavoro, di qualunque tipo esso sia, è fatto di attenzione e molta professionalità, anche se la committenza risponde all’autorevole nome di Martin Scorsese. Durante l’intervista Ferretti non ha fatto che ripetere: “E’ molto semplice”. Tutto quello che Ferretti fa, e il modo in cui ne parla, è caratterizzato da questa semplicità e purezza d’intenti. La sua marchigianità, che per molti è provincialismo, per noi genuinità, non gli permette di guardare al suo lavoro che come a quello di un artigiano. Un artigiano, nelle campagne del centro Italia soprattutto, fa quel che fa in modo eccellente, non perché sia particolarmente bravo, o oggetto di un particolare caso di fortuna, ma perché il prodotto finale non può essere meno che perfetto, dato che le regole per portarlo a termine quelle sono e non ha senso trasgredirle. Siamo convinti che la componente cosiddetta irrazionalista della creazione artistica in Dante Ferretti sia ben imbrigliata da un senso del dovere e del lavoro manuale poco nota ai sedicenti artisti di oggi (cosa che comunque non gli ha impedito di creare dei capolavori scenografici come quello di The Aviator e di Gangs of New York). Ecco dunque Ferretti che dice che i suoi lavori sembra vadano bene perché finora nessuno s’è lamentato, che si stupisce se Fazio ha recuperato i suoi bozzetti – bellissimi, evocativi e su larghissima scala – e li proietta sul megaschermo alle sue spalle, che butta i suoi lavori al termine delle riprese perché, tanto, che cosa ci fa con dei pezzi di scenografia dentro casa, anche se parliamo di quella de Il nome della Rosa di Jean-Jacques Annaud ed è palesemente ispirata ai disegni di Escher?

Per il Maestro è stato normale pranzare con Fellini, con Scorsese, con Rossellini. Perché stupirsi se l’artigiano va a mangiare con un suo cliente, e chiama il suo committente più importante, in un lapsus improvviso, “coso” (parlava di zio Martin)? Fellini, Scorsese, Pasolini hanno lo stesso status del cliente che va a farsi risuolare la scarpa dal calzolaio. Benedetto provincialismo! Ferretti si autodefinisce un megalomane massimalista, ma lo è più per il modus operandi che per essenza intrinseca. I suoi bozzetti sono sempre di due metri per uno, perché, cosa vuoi vedere in quelle tavole piccole? E come si può pretendere che lo spettatore creda che quel che vede sia vero se il milieu in cui si muovono gli attori risulta perfetto e storicamente ineccepibile, giacché la realtà è tutt’altro che perfetta?

La disarmante semplicità del Maestro – che a noi cittadini assuefatti al narcisismo e alla complessità delle cose risulta scandaloso – è suggellata dalla risposta alla domanda finale di Fabio Fazio. Incerto se porre la questione o meno, perché forse fuor di tono, difficile o addirittura incomprensibile per l’interlocutore, Fazio alfine chiede con una certa ritrosia: “Maestro, ma per lei, il bello cos’è?” E Ferretti, senza scomporsi minimamente, con quell’aria sorpresa di chi gli sta facendo delle domande sciocche perché corredate da una risposta banale, ribatte con incantevole semplicità: “Il bello è quello che non è brutto.

Onore a te, Maestro, e all’eccellenza inconsapevole che esporti nel mondo e che tanto ci fa bene.

Francesca Sordini
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