Alice nelle città, fotografare i luoghi dell’Anima

Alice nelle città, fotografare i luoghi dell’Anima

April 15, 2016 0 By Mariangela Martelli

NYHai perso il tuo centro e il tuo mondo, lasciando frammenti della tua anima nei posti in cui sei stato. Tracce di te sparse in ogni dove. Fermi la tua immagine in una polaroid senza riuscire ad afferrarla realmente. E allora riparti. Non sai in quale città vuoi arrivare, te ne va bene una qualunque. Cerchi il ritorno, ma è lontano. Accorci le distanze tra un luogo dell’anima e l’altro continuando a camminare da solo. Intorno, le cose, non sono le stesse che hai nella mente.

Philip Winter (Rüdiger Vogler) è un giovane giornalista tedesco che deve scrivere un articolo sul paesaggio americano per una rivista di New York. Percorre gli orizzonti perduti tra la East Coast e le immense strade della grande mela, ed invece di prendere appunti sul taccuino scatta continuamente foto con la sua polaroid sx-70 (un gioiellino appena uscito nell’epoca in cui è ambientato il film e che ha cambiato il modo di intendere e fare fotografia, rendendola più pratica ed immediata).

Tutto questo cercare per forza le prove della propria esistenza gli lascia solamente il nulla. Scatta foto su foto in modo frenetico senza neanche aspettare di vederle nitide e finite, non riesce ad acchiappare il vero se stesso, a trasporlo in un’immagine ferma e reale. Nel frattempo non si vive il preludio dell’attesa, della lentezza di uno scatto che si mette a fuoco piano piano rischiarandosi. Irrequieto non vede il confronto tra realtà e immaginazione perché niente corrisponde alla sua essenza. Cosa è fermo e cosa in mutamento? Un attimo dopo la risposta è già scomparsa nell’aria, con il naso all’insù, Philip, segue la traiettoria di un aereo e sa che andarsene da New York è necessario: ormai è diventato cieco e sordo.

wenders cities

Quando Vogler, in un’intervista, ci parla di Wim lo fa con un’ammirazione ai limiti dell’innamoramento (un po’ come quando Wim parla di Ozu o di De Andrè per intenderci). L’attore racconta di come il periodo delle riprese di Alice in den Städten sia stato uno dei momenti più felici della sua vita: tutto ciò che immaginava sul cinema si realizzava e ricorda perfettamente l’incontenibile gioia che ha provato quando era a NY. Il movimentato periodo post ’68 di autogestione nel teatro in cui lavorava, gli fa capire di voler  intraprendere una vita nuova: uscendo dal suo vecchio mondo e dal vortice politico per entrare attivamente in quello di Wim: lavorare con il testo e imparare a fare cinema, essere presente e esistere davanti a una cinepresa. Sa che il cinema accorcia le distanze, rispetto al teatro e ne ha serena conferma nello sguardo di Wim, l’occhio del regista nell’obiettivo è un orizzonte, un filo che li unisce in modo indelebile.

Come fulcro del volto, l’occhio lo rappresenta nella sua totalità e come parte del corpo è insieme videns e visa: cioè, che non solo vede ma su cui anche si affissano reciprocamente gli sguardi quando due individui si trovano l’uno dinanzi all’altro, per stabilire tra di loro un primo contatto”.

L’occhio parlante. Per una semiotica dello sguardo nel mondo antico

Vedere la verità: non c’è cosa più complicata per il fotografo Philip Winter nel film come nella maggior parte dei registi di oggi che secondo l’alter-ego Vogler sono lontani anni luce dal pensare e creare cinema rispetto ai loro predecessori: si siedono, infatti, davanti a un piccolo monitor, magari in una stanza diversa di quella in cui sono gli attori. Manca l’immediatezza, la percezione di occhi che si incontrano a metà strada, nella stessa aria. Il creare empatia con l’attore, lasciare che si affidi completamente all’idea del regista. Wim ha sempre cercato le peculiarità delle persone con le quali lavora: durante una pausa ne ruba i tic, i gesti, l’essenza, memorizzandoli e facendoli propri per poi riproporli durante le riprese.

La fotografia è verità, e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo

-Jean-Luc Godard

Wim si circonda sul set e nella vita, di persone con i suoi stessi interessi culturali e musicali. Ha bisogno di continui input e nutrimenti che non può trovare in altro modo. “Alice nelle città” è uno dei tanti esempi di come una sua opera sia in grado di comunicare tutto l’entusiasmo, la volontà e comprensione (anche) attraverso la musica: in questo film sentiremo la colonna sonora di Chuck Berry, nella meravigliosa scena del concerto.

Di nuovo, come in altre occasioni della mia vita, ero commosso dalla potenza di un’immagine”.

Don De Lillo, Americana

L’intero film “lavora per immagini”: ci sono le immagini in movimento (on the road) come le immagini ferme nel tempo di ieri e di oggi: “ciò che è grave è che tutte queste immagini diventano alla lunga delle pubblicità e della propaganda per il sistema … tutte le immagini che ci inviano si livellano in un’emissione comune … nessuna immagine lascia riposare … tutte vogliono qualcosa da noi”.

Ma adesso veniamo ad Alice. Perchè questa è anche la storia di una bambina, del momento che sta vivendo. La noia di una ragazzina di nove anni in eterno pellegrinaggio tra una città e l’altra con una madre-non punto di riferimento tra Olanda, Germania ed infine America. Alice è in un continuo errare vago come Philip ma quando questo stato al quale si è abituata le viene interrotto dagli avvenimenti intorno (la madre dopo qualche mese a New York, decide di ritornare “a casa” da sola per “riappropriarsi” di una vita lasciata in stand-by) è obbligata a fermarsi e a inseguire, accompagnata da Philip, le tracce della madre (e poi della nonna). Imporre ad Alice questa immobilità alla Oblomov non le si addice: la fa sentire come una valigia persa all’aeroporto da due genitori che non ci sono mai stati né per la figlia né per sé stessi. Alice è una bambina ma crede di averlo dimenticato: si è adeguata alle conseguenze che non ha scelto e non riesce a vedere il mondo con gli occhi dell’immaginazione: percepisce le cose e le persone per quello che realmente sono, senza farle proprie ma lasciandosele scivolare.

Kandiskij Der Blaue ReiterNon si vede nulla” dirà a Philip sull’aereo dopo averle dato un’ istantanea delle nuvole. Non appena la nebbia si dirada le sembrerà “bella perché così vuota”. E non basta soffiare sull’empire state building a mezzanotte in punto, per farle credere la “favola bella”; sull’aereo non era riuscita ad indovinare una parola perché per lei non esiste realmente: Sogno. Ma riuscirà a percepire il sogno di Philip nel racconto della buonanotte e magari a sognarlo a sua volta. La storia di lui inizia con “C’era un uomo” ma riprende subito dopo con “C’era un bambino”. C’è corrispondenza di sensazioni tra la passeggiata nel bosco e quella per le vie di New York, radura e incroci sono la stessa meta. Philip vorrebbe essere il cavaliere che è arrivato e che guarda in lontananza ma oltre il ponte il suo sguardo si perde. Lasciando così l’uomo nella realtà e la bambina nel sogno dentro al sogno.

Philip e Alice si sono incontrati: lei prende la polaroid per fotografarlo: “Così vedi come sembri”.

L’immagine di lei vibra in quella ferma del viso di lui, sovrapponendosi nella foto. Il loro essere e sembrare si confonde, in un confine sfuocato di due anime che si sono trovate, senza cercarsi. Ed è allora che Alice assume il ruolo di “Pupilla”, in quanto porta in sé, inconsapevolmente, un’ “anima pupillina”: il suo occhio diventa una finestra della sua anima che si affaccia in quella di lui, come specchi infiniti che si susseguono in ancor più infiniti frammenti per poi infine fermarsi insieme nell’eternità di uno scatto. Ora entrambi possono vedere sé stessi e l’altro: la foto è finalmente nitida.

Alice nelle città va visto: è una pellicola in bianco e nero del ’73, prima tappa della trilogia “On the road” di Wim Wenders (le altre: “Falso movimento” del ’75 e “Nel corso del tempo” del ’76) in cui tutti, non solamente gli amanti della fotografia e della Wanderlust potranno immergersi grazie alla potenza evocativa delle immagini e alla poetica narrativa disarmante. Wim, nei suoi film, ci racconta il mondo per quello che è: ne riscopriamo così la bellezza nel senso più totale, facendo nostre le difficoltà dei sentimenti nel corso del tempo e dello spazio. Sembra che tutto sia sempre stato così semplice. Lo spettatore sente che non esistono distanze tra la propria storia e quella che vede: si immedesima in tutto questo e alla fine di ogni film di Wim la sensazione che rimane sulla pelle è la stessa di quando si torna a casa dopo un lungo viaggio.

 

 

Mariangela Martelli