
La Terrazza di Ettore Scola, testamento di una borghesia morente
April 26, 2016Un doveroso preambolo: il realismo, la commedia e l’asse Petri/Rosi
La Terrazza, regia di Ettore Scola. Un romanzo corale che è apice della disillusione, la concretizzazione massima di un’idea di sconfitta che ha attraversato tutto il suo cinema. Da una serata trascorsa in una terrazza romana, sede di uno degli innumerevoli salotti dell’alta borghesia, si dipanano cinque vicende parallele, che si ricongiungono nel finale, nella medesima terrazza, in una struttura perfettamente circolare. Questa circolarità, oltre ad essere un efficace espediente narrativo, è portavoce di uno dei significati più profondi e dolorosi dell’opera, ovvero il sostanziale immobilismo delle cose.
Il fulcro della poetica di Scola, che ne La Terrazza emerge con enorme potenza espressiva, è il problema del fallimento delle rivoluzioni. Esponente egli stesso della borghesia e promotore delle idee del Partito Comunista, racconta con disincanto le vicende, colme d’ignavia, di un’intera generazione di reietti, non in grado di contrastare il potere, intrappolati in una borghesia decadente che mantiene esclusivamente un decoro di facciata, smarrito ormai ogni respiro intellettuale. Focalizzato sulla caratterizzazione del ceto medio come elemento più ricettivo di una guida potenziale da parte della borghesia, Scola ha optato, e La Terrazza ne è un esempio eclatante, per una scrittura che delineasse vicende intime, profondamente umane, calate con naturalezza nel contesto sociale.
Emerge un affresco realista di fondo che evoca i tratti salienti dell’Italia dell’intero Dopoguerra (C’eravamo tanto amati), con l’ambizione di interpretare i movimenti della società, i suoi cambiamenti e l’evoluzione in un presente che ha smarrito ogni ideale. Gli individui che popolano le sue pellicole, condannati sin dall’inizio a non poter dominare le proprie vite, camminano in una società che li influenza, li abbruttisce, ne determina la sottomissione al potere politico, intenti a districarsi tra storie d’amore e di amicizia, in cui giace il cuore pulsante di ogni opera, a preservare una emotività straordinaria.
Lo sfondo politico non è mai raccontato con enfasi o propaganda (Una giornata particolare, con la radio in costante sottofondo a raccontare la venuta del Fuhrer in Italia), ma con naturalezza, perfettamente embricato nel quotidiano. I personaggi, vittime di questa opprimente quotidianità, sono incapaci di contrastare la loro precaria condizione e vivono intrappolati negli ideali, mai davvero in grado di metterli in atto, per poi ricadere negli stessi errori. Lontano da questa idea era invece Elio Petri, le cui opere sono veri manifesti politici e di lotta operaia, aggressivi quanto i suoi ideali di anarchia, con situazioni tragiche al limite del grottesco (La classe operaia va in Paradiso, La proprietà non è più un furto). Scola, dal canto suo, non forza le situazioni per enfatizzare un messaggio di ribellione della classe proletaria, ma fa del realismo un’arma potentissima per raccontare situazioni paradossali, in cui il paradosso è insito negli stessi personaggi, così impreparati al mondo e così prigionieri dei propri limiti, da generare situazioni assurde (Brutti, sporchi e cattivi), amare quanto le migliori commedie all’italiana.
D’altra parte, manca in Scola un reale intento documentaristico, proprio del cinema di Francesco Rosi, in cui il fine era la denuncia, seppure raccontata con una sensibilità e un senso estetico talmente spiccati da impregnare ogni inquadratura di elevatissimo lirismo (Salvatore Giuliano, Le mani sulla città). Scola è forse meno interessato alla messa in scena, preferendo lavorare sui movimenti di macchina, le cui oscillazioni e il cui sguardo sono l’elemento più indicativo del suo smisurato amore per il cinema.
Ed ecco che in Scola mancano talvolta trame reali, prevalendo il suo interesse per il racconto della vita, dell’evoluzione (o il ristagno) degli stati d’animo. L’estro nella scrittura, sempre vivace e pungente, riesce ad essere portavoce del senso delle sue opere. I dialoghi sono spesso vuoti, annoiati, ruotano attorno ad una cultura sterile, fatta di citazioni e recitazioni, declamate quasi per abitudine o per ozio.
Si assiste, ed è qui che subentra l’incipit de La Terrazza, ad uno sfoggio del sapere della borghesia, senza che questo sapere conduca ad un obiettivo o produca una qualsiasi forma di progresso. Dall’Ipocrisia, si sviluppano le cinque vicende dei personaggi che hanno il privilegio di frequentare la terrazza. E di ognuno, Scola dipinge una forma di fallimento, raccontando la miseria della sua generazione.
Pentalogia di un fallimento
1) Sergio (Jean-Louis Trintignant) è uno sceneggiatore con l’ambizione di scrivere un film satirico. Riflette sul potere della risata come mezzo di trasgressione o consenso; studia Pirandello, Diderot, Wittgenstein. Vuole cogliere i nuovi tabù della classe media, pone il problema della satira nel cinema come mezzo di attacco indiscriminato al potere, sia esso politico o di costume, per operare una riflessione produttiva sulla realtà ed emancipare le masse dall’ignoranza (“Cosa sono i neoconformismi? Sono le nuove fedi che la borghesia si dà in assenza dei tabù frantumati”). Purtroppo vive in costante blocco creativo, non ha alcuna ispirazione: vive di forma, non riesce a possedere la sostanza. Conosce la teoria, ha scritto saggi su come nasce la risata e sull’umorismo, eppure non è in grado di produrre alcuna idea utile. Il suo produttore pretende storie che suscitino risate di pancia, con assoluta mancanza di cultura, un mezzo di eversione e di fuga dalla riflessione sulla società. Costretto a scrivere di inezie e volgarità, vede il fallimento della critica feroce operata della satira, e soccombe all’imposizione dell’addormentamento delle masse.
2) Luigi (Marcello Mastroianni) è un giornalista alle prese con una moglie da riconquistare. E’ l’emblema del borghese ancorato al passato, che sente il peso della vecchiaia come dato generazionale. Concentrato sull’apparenza, ha un’enorme cultura che sfoggia per il gusto dell’autoreferenzialità, senza in realtà dire nulla di concreto. Scrive articoli definiti “accomodanti, possibilisti, ripetitivi”, braccato in un’ironia implacabile del mondo e di se stesso. Sente di aver perso la battaglia contro il conformismo delle nuove generazioni, pur sapendo di incarnarlo egli stesso senza possibilità di evasione. Disilluso, intrappolato nella forma, egoista e narcisista, un reale codardo che attribuisce al mondo le colpe delle proprie debolezze (“Abbiamo sbagliato tutto. Mi sento un personaggio negativamente emblematico. Per colpa del crollo verticale degli ideali”). In lui risiede il fallimento di un progetto d’amore con la moglie in carriera, che ha sempre ostacolato, senza aver mai posto le fondamenta per una condivisione di anime e l’altruismo proprio del sentimento filiaco.
3) Sergio (Serge Reggiani) è un funzionario RAI anoressico e depresso. Ossessionato dal peso, rifiuta il cibo e sente di essere denigrato da tutti (“No, guarda, mi hanno già detto tutto: non ti farà male tutta quella roba? Della tazza del cesso che ne hai fatto, un portafiori? Tu in campo di concentramento ingrassavi! Il che, considerato che sono ebreo, è ancora più spiritoso, no?”). E’ l’archetipo dell’integrità dell’intellettuale, che non accetta compromessi e rifiuta l’americanizzazione della società italiana purgata dal vecchi valori del comunismo. Non può integrarsi in un mondo che non comprende e che disprezza tacitamente, e osserva impotente il declino della sua vita. Avendo compreso la reale natura dei cambiamenti e l’ingerenza del capitalismo nelle vite di ognuno, accetta di morire come Matamoro del romanzo Capitan Fracassa, sepolto dalla neve finta dell’omonimo set televisivo, finalmente libero da tutti coloro che hanno deriso la sua onestà, la moralità e il classismo, e non ultima la fede in antichi valori che la società ha abbandonato.
4) Amedeo (Ugo Tognazzi), produttore cinematografico che è essenza della grassa solitudine e dell’esistenzialismo borghese. E’ il simbolo di una nuova generazione di produttori che ha causato il fallimento del cinema come mezzo per veicolare le idee rivoluzionarie. Vorrebbe realizzare opere che affrontino i tabù della classe media, eppure non ne ha la cultura, né una progettualità concreta, essendo infantile, invecchiato come gli altri della sua generazione, schiavo del servilismo per una moglie di cui desidera ardentemente stima e approvazione. Non ha entusiasmo per il suo lavoro, ripiega nella risata spicciola e volgare, ed è la forma più crudele con cui Scola mette in mostra il fallimento di un’intera vita. Un’esistenza vuota, che non è in grado di colmare con nulla, aggrappato ad una borghesia di cui non rimane che il nome, svuotata di ogni fermento e pulsione alla guida di una società intera. E’ la condizione della solitudine del ricco (un tema fondante in C’eravamo tanto amati, ad esempio), un esistenzialismo che si nutre dell’angoscia per la mancanza di obiettivi, la sensazione di essere gettati nel mondo e l’incapacità di intraprendere scelte dignitose. Non ha interesse nel far progredire la cultura, e pur di ricevere le attenzioni della moglie attrice, realizza film dichiaratamente intellettual(oid)i, ermetici, indifferenti nei confronti dei temi emergenti, concentrati sul solo obiettivo di sconvolgere e scandalizzare, privati di qualsiasi idea di moralità. Nessuna comunicazione di un messaggio utile per le masse: in Amedeo, forse, Scola vede il fallimento più grave della sua generazione.
5) Mario (Vittorio Gassman), deputato del Partito Comunista Italiano. Se Amedeo rappresentava il fallimento più grave, sicuramente Mario incarna quello più scottante, fastidioso, sepolto sotto una ribellione viscerale propria di coloro che hanno combattuto per gli ideali nel Dopoguerra: il fallimento politico. Dice di lui Luigi: “Comunista in un Paese capitalista, scissione della personalità e colite”. In Mario e nella sua relazione extraconiugale con una giovanissima Stefania Sandrelli, si pone in maniera decisiva il problema dello scontro generazionale e del fallimento delle rivoluzioni, non ultima quella comunista. Mario era stato vigoroso nel Dopoguerra, uno dei promotori più decisivi delle idee della sinistra, eppure adesso appare disilluso, stanco, consapevole di esser e legato ad una politica ormai defunta, che gli ha lasciato un vuoto incolmabile. E’ impotente dinanzi allo scetticismo della società contemporanea, emarginato dal Partito per il suo legame ad un passato ormai improponibile. Nella sua relazione amorosa vede uno spiraglio di nuova vita, la fuga verso la riscoperta della felicità individuale. Scoperto dalla Stampa, deve fronteggiare lo scandalo del suo adulterio. Si chiede se sia lecito essere felici, anche se questo crea infelicità. La giustizia e il rigore (o meri pretesti per tacere sulla sua incapacità di agire) gli impongono l’allontanamento dalla donna ed il ritorno ad una condizione di vuota solitudine.
Il cerchio si chiude
Di nuovo, dopo un anno, i cinque ritornano nella stessa terrazza. Si canta, si ride, si sorvola sull’incapacità di cambiare le cose e ci si copre di apparenza per nascondere l’inettitudine. Non vi è fuga dal pessimismo, non c’è possibilità di superare il paludamento di anime. Ci si camuffa, si fa sfoggio della propria impresentabilità con ironia, si ammette che l’idea di borghesia è tutto ciò che resta per conferire un senso alle esistenze.
Conclude Mario, in uno dei monologhi più belli della storia del cinema, a chiusura di un intero progetto fallimentare e quasi un testamento con cui Scola sancisce la caduta di ogni speranza: “Che Dio vi stramaledica, ma perché vi frequento io? I privilegiati depressi, fanno pure più schifo dei privilegiati contenti. Non se ne può più del dolente erudito […],questo implacabile stronzo. Non vi voglio più vedere, voi siete il mio specchio.”
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