The Sea of Trees, la foresta dei sogni (e dei suicidi)

The Sea of Trees, la foresta dei sogni (e dei suicidi)

May 4, 2016 0 By Mariangela Martelli

la-foresta-dei-sogni-trailer-e-poster-del-film-di-gus-van-santManca circa una settimana alla nuova edizione del Festival di Cannes, ma se si tende l’orecchio verso la Costa Azzurra risuonano ancora i fischi all’ultima pellicola di Gus Van Sant, uscita inaspettatamente nelle sale italiane la settimana scorsa. The Sea of Trees ha avuto un trattamento analogo a quello riservato a Only God Forgives (N. W. Refn, 2013) proprio a Cannes o Midnight Special (J. Nichols, 2016) all’ultima Berlinale. Son stati riportati due casi molto recenti per esemplificare un processo frequente: spesso ciò che viene disprezzato e aspramente criticato nel circuito dei festival, diventa un cult. E i film di Refn e Nichols lo sono diventati in brevissimo tempo.

Per Arthur Brennan (Matthew McConaughey) basta un biglietto di sola andata per Aokigahara, Giappone. Destinazione: la foresta “Mare d’alberi” sul Fuji-San, luogo dei suicidi. Lo seguiamo mentre si immerge nel verde del bosco, anima vaga e sola verso il non-ritorno, il suo  ritmo è fatto di scatti veloci, in apnea. Riuscire ad afferrare il suo pensiero anche solo per un attimo non ci è possibile per il momento, dovremo attendere. Entrando tra gli alberi percepiamo un qualcosa di incontaminato, di puro, sacro. Arthur è come se, con la propria scelta, volesse riscoprire il lato autentico di sé nel tempo. Poi l’incontro, nel buio dei rami, interrompe il suo sonno di immagini frammentarie del passato. È un uomo: Takumi Nakamura (Ken Watanabe) disorientato da un’azione che non ha saputo portare fino in fondo per rivendicare il proprio onore ferito e perso con il lavoro. I due proseguono insieme nel Labirinto di sentieri che continuano senza mai interrompersi in una sorta di purgatorio dantesco/giapponese. Due uomini che si sono trovati al confine delle loro anime.

The-Sea-Of-Trees-HeroIl loro è un vortice di caos, sogni e realtà, spezzato dai momenti di solidarietà umana in cui  condividono un viaggio fatto dalle luci e ombre che portano dentro e che emergono vivide come echi riflessi di una natura che ci strappa dal sonno, dal nostro corso immutabile, all’improvviso, facendoci destare con forza. Vite parallele che si intrecciano, come fili rossi del destino (un omaggio alla famosa leggenda cinese del  “Del filo rosso del destino” Unmei no akai ito 運 命 の 赤 い 糸a cui i giapponesi sono molto “legati”). Matassa che è destinata a intrigarsi ancora di più nella storia di Arthur con la moglie Joan (Naomi Watts) mentre lui cerca di scioglierla rivivendo quel che è stato e che non è più. L’aver sempre parlato troppo di nulla non ha fatto conoscere ad Arthur i dettagli dell’Essenza di Joan. Ciò che gli scivola dalle dita è la quotidianità di non condivisione, anaffetto reciproco e incomunicabilità. Un non vivere interrotto dagli Eventi della vita che gli sono piombati addosso, lasciando macchie di impotenza nella storia del loro matrimonio. Nebbia che cala su chi era prima e tutto quello che diventa nel presente, unica certezza: non sapere più dove si sta andando. Non basta guardare vecchie foto di un mondo lontano perché un nulla può capovolgere l’esistenza. Il Desiderio di riappropriarsi di un tempo perduto viene invocato invano, non è vicino alla realtà e di-strugge non appena si ha la consapevolezza che la memoria è uno specchio di illusioni. Arthur cerca la voce di Joan sulla montagna che tace. Il senso di perdono che non arriva e si aggrappa a un’immagine morente, sulla scala di pietra che potrebbe salvarlo, portandolo alla vetta. Il colore della stagione di lei è sbiadito, non ha saputo afferrarla mentre gli si stava rivelando.

In un film che puzza di morte e che tratta (anche) il tema del suicidio, quello di Gus Van Sant è sembrato a molti critici un seppuku artistico. Lungi dall’inquadrarlo tra i suoi migliori lavori, non si può tuttavia non notare quanti elementi tipici del regista confluiscano in The Sea of Trees.

gerry 2002Balza subito agli occhi la vicinanza con Gerry, uno dei film meno conosciuti e sottovalutati di Van Sant. Come i due omonimi protagonisti del film appena ricordato, che si perdono in un deserto senza acqua o viveri, anche Arthur e Takumi si smarriscono in un luogo ostile. Ad un paesaggio ribollente e inospitale se n’è sostituito uno freddo, ma ugualmente privo di vita.

last days 2005 picSe Gerry sembra il precedente più vicino a The Sea of Trees, è invece Last Days a esserlo. La verosimile cronaca degli ultimi giorni di Kurt Cobain, che nel film diventa Blake per evitare cause legali dalla vedova Courtney Love, si accosta all’ultima regia di Van Sant. La fuga dal mondo e da chi si è, lo smarrimento nel bosco cercando la via di casa e la riflessione su se stessi di fronte ad un fuoco, il tema della morte come ascensione/purificazione (la scala di legno in Last Days, quella di pietra nella villa verdeggiante o quella nella foresta in The Sea of Trees).

Scavando a fondo, c’è ancora di più. Il continuo citare il cinema giapponese classico (la teiera e il baseball delle pellicole di Ozu, le riprese notturne e nella natura di Mizoguchi, le carrellate nel bosco del Kurosawa di Rashomon), ma si può tendere un filo tra il film e la cultura giapponese in generale, in particolare alla letteratura: The Sea of Trees non è tratto da nessun romanzo, è una sceneggiatura originale, ma il sottobosco narrativo rimanda a tematiche frequenti tra gli scrittori giapponesi.

Nessun altro suono, al di fuori di quello. Il giardino era vuoto. Sono venuto nel luogo del Nulla, dove ogni ricordo è cancellato”. (Yukio Mishima, La decomposizione dell’angelo, Feltrinelli)

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La montagna amplifica il sentire dei personaggi. Dalla calma di un presagio si fa inquietudine per poi abbattersi inesorabile in tempesta: l’urlo del Fuji esplode in una catarsi devastante. Il desiderio di morte si trasforma adesso in un appiglio della sopravvivenza. Poi tutto passa e diventa profondo silenzio. Takumi è disteso, vicino allo scorrere del fiume: il suo canto è un distacco dalla realtà, una superficie fluttuante tra sogni di sogni, all’ombra della luna. Arthur ascolta: il riflesso del fuoco che hanno acceso è adesso tra le lenti dei suoi occhiali scheggiati. Sapere di esserci.

Io so dove sono nascosti i miei desideri. Essi sono come un fiume che scorre veloce, qualsiasi punto della corrente muta di continuo. Gli uomini non fanno in tempo a guardarlo che esso è già cambiato. I loro sguardi non possono fermarlo perché è eterno”. (Yukio Mishima, La foresta in fiore, Feltrinelli)

Il Fuji-san ci parla, partecipando alla non-vita e al ritorno dell’alba ed evidenzia il ruolo di Takumi come anima-tramite per riunire in qualche modo Arthur con se stesso e con l’altro: forse il messaggio del suo compagno di viaggio lo aiuterà a sciogliere l’arcobaleno di fili d’Arianna abbandonati in un abbraccio sospeso tra un tronco e l’altro.

Scene under Mannenbashi at Fukagawa Katsushika Hokusai

“Le nubi di tanto in tanto ci danno riposo mentre guardiamo la luna”. – Matsuo Basho

Il ritorno di Arthur, al richiamo della montagna, sarà la favola di Joan che si realizza in una traccia  di pagine sgualcite su un sentiero da percorrere al contrario. Perdere il proprio filo non è ammesso, nonostante sia così labile e invisibile. Tutto sembra irreale se visto da una certa distanza ma è un fiore a infondere la forza nella calma e ordine del mattino: l’orchidea, secondo l’usanza giapponese è tra i fiori nobili della quattro stagioni. Le ore non sono più ferme: riaffiorano lenti i colori, le stagioni sono fresche sulle cose ultime: tutto si svela a coloro che sanno sentire. Come un Haiku dimenticato e fatto nostro, per trovare una Via d’uscita. Ora la foresta respira.

 

Via via che andava vicino all’albero, l’eleganza e la massa verde sovrastante penetrarono nel profondo del suo cuore. Grazie alla forza della natura, sentiva purificarsi i suoi complessi sentimenti. Disse tra sé che era giusto accettarli con semplicità”. (Yasunari Kawabata, Il suono della montagna, Bompiani)

mishima-kawabataCome Arthur e Takumi, sono in molti i personaggi nella letteratura giapponese ad aver scelto un luogo ben preciso per fondere i propri limiti nella bellezza della natura nel momento ultimo dell’esistenza. Racconti, poesie, romanzi ma anche la vita stessa di molti autori. Come non ricordare tra tutti, Yukio Mishima e Yasunari Kawabata: entrambi legati da un fil rouge, non solo di profonda stima reciproca e amicizia ma soprattutto da una corrispondenza nel percepire la vita e vivere la propria arte anche nel desiderio (e azione) dell’ estremo gesto volontario: due anime affascinate dall’idea della propria morte. Nel finale della tetralogia “Il mare della fertilità” di Mishima possiamo leggere la data decisa e incisa su carta: 25 Novembre 1970. Lui commetterà seppuku in diretta televisiva: realizzando così un’immagine ben precisa di sangue, eros e bellezza senza ritorno che ha avuto modo di trasmetterci nelle sue opere. Due anni più tardi, invece Kawabata compirà l’ atto in un appartamento in riva al mare. Silenziosamente, mentre l’acqua, poco lontano, va infrangendosi  sulle rocce.

(Mariangela Martelli e Simone Tarditi)

 

Mariangela Martelli