
Green Room, un incubo tra le fauci degli skinheads
July 13, 2016Un gruppo di musicisti punk fa spola da una città all’altra del tour cercando di campare come meglio può. I soldi mancano ed è sempre presente l’ansia di non riuscire a raggiungere neanche quel briciolo di fama in grado di garantir almeno la serenità economica. Tra incontri sbagliati e promesse illusorie, la band finisce col suonare in un locale sperso nei boschi e popolato dalla peggio feccia umana: gli skinheads. Ignoranza, intolleranza e coltelli arrugginiti l’attendono, sbarrando ogni via di fuga.
Due anni dopo il miracoloso Blue Ruin, lo sceneggiatore-regista-direttore della fotografia Jeremy Saulnier ha compiuto nuovamente l’impresa di rendere grande e accessibile a tutti un film indipendente come Green Room, autentica prova di come si possa fare ancora del grande cinema con mezzi ridotti, girato quasi tutto in un solo luogo claustrofobico, ma soprattutto con una storia solida, senza velleità esistenziali-filosofiche.
Mentre in Blue Ruin vi è un maggiore attaccamento e una più completa immedesimazione col protagonista, in Green Room lo spettatore è scaraventato in un luogo maledetto e dimenticato da Dio, all’interno del quale -al pari dei personaggi “positivi”- sperimenta la sensazione di essere nel posto sbagliato in un momento sbagliatissimo. L’ostilità avvertita dai protagonisti non è voluta o ricercata da loro, per farla breve: non hanno scelto di finire in quella situazione e allo stesso tempo non possono più tirarsi indietro. La salvezza non è dietro l’angolo.
Quello mostrato in Green Room è un incubo nella sua forma più pura, quasi carpenteriana: dalle zone d’ombra, dagli anfratti sporchi, lerci e polverosi, da dietro le porte scassate, dal fondo dei corridoi più bui fuoriescono in numeri, alternativamente pari e dispari, teste rapate pronte a sfondare crani per ristabilire l’ordine. C’è un caos cieco, eppure logico nella sua irrazionalità. Addirittura l’atto di uccidere diventa come quello dei sogni peggiori: incapacità di colpire il bersaglio al primo colpo e consapevolezza di avere salva la pelle solo una volta usciti dalla fase REM.
La “fuga dai mostri” messa in scena nell’ultimo film di Jeremy Saulnier ci rimanda a Murder Party, il suo primo lungometraggio, una grezza commedia horror che presenta già spunti registici notevoli e una serie d’idee divertenti e geniali. Anche il suo primo lavoro è costruito attorno ad un protagonista che sprofonda in una serie di eventi nefasti (rappresentati, però, con toni del tutto leggeri) dalla quale fatica ad uscire tutto d’un pezzo, abbracciando a sua volta delle armi e facendosi strada tra cadaveri e schizzi di sangue ovunque.
Insomma, se il vendicativo eroe di Blue Ruin vuole compiere per se stesso un percorso di purificazione, seppur non attraverso un possibile e canonico cammino di accettazione/perdono/rinascita, in Murder Party e Green Room assistiamo ad un processo inverso per mezzo del quale i protagonisti lottano per sopravvivere ad una situazione nella quale sono finiti per sbaglio.
Una cosa è certa nell’attuale filmografia del regista: la rappresentazione della morte e della fine di una vita è qualcosa svuotato di ogni contenuto enfatico. A riprova di ciò, è difficile provare un concreto attaccamento a qualsiasi personaggio dei suoi film, fatta eccezione per Dwight in Blue Ruin. Tutti cadono letteralmente come birilli a terra, scomparendo fulmineamente di scena, dando l’impressione che ciò non tocchi o colpisca più di tanto neanche coloro i quali invece sono ancora in piedi, vivi e vegeti nelle pagine della sceneggiatura o nelle immagini del film. Questo distacco nei confronti delle proprie “creature” lo si ritrova anche nello scrivere gli atti finali di chi rimane in vita, come nei comuni casi di William in Blue Ruin e Gabe in Green Room i quali lentamente si avviano all’interno di un bosco per sparirvi senza quasi lasciar traccia. Un destino benevolo e misterioso.
Nota: Sul compianto Anton Yelchin, morto qualche settimana fa in bizzarre circostanze dopo essere stato investito dalla sua stessa auto lasciata “in folle” su di una salita, il web ha già versato lacrime da coccodrillo per un talentuoso ragazzo per il quale -ammettiamolo- in pochi hanno tributato in vita quel che si meritava. Al di fuori dei tre Star Trek, Yelchin ha preso parte (raramente come protagonista) a film rischiosi come Alpha Dog (N. Cassavetes, 2006) e Dying of the Light (P. Schrader, 2014) o lo splendido Only Lovers Left Alive (J. Jarmusch, 2013). Se nelle intenzioni Green Room fosse un veicolo per la “svolta” della sua carriera non ci è dato sapere, ma rimane (assieme alla manciata di suoi film che ancora devono uscire) un non indifferente testamento per l’attore che è stato.
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