
I’m Not There, fuggire dalle definizioni
July 20, 2016“Il mercato è fenomenale, splende come le luci di mille città, gira e gira in eterno e dappertutto ci sono creaturine che cercano disperatamente di stare aggrappate a una mano sola e invece si ritrovano scagliate via nella notte circostante, nel silenzio, nel vuoto, nel buio, nei bacini, nei crateri, nel grande baratro.”
(Don DeLillo, Great Street Jones, edizioni Einaudi)
Sei Dylan in mezzo alla suite dell’hotel, dall’alto sulla macchina da scrivere. Foto e frammenti di riviste e quotidiani ti circondano, come petali di un enorme girasole in bianco e nero. Il tempo è sospeso, forse non sei più lui. Luci di grattacieli che abbagliano e si susseguono tra fiumi di ombrelli mentre una tarantola risale le pareti della pelle in un ticchettio di lancette che non ci sono e cadi finalmente nel sonno, tu che non dormivi mai perché la reputavi una cosa da sognatori. Ora hai tutto: ieri oggi e domani, nella stessa stanza. Mai stato così naturale.
I’m not there è una pellicola di Todd Haynes del 2007 ispirata alla vita e musica di Bob Dylan. Il film è stato premiato alla 64^ mostra del cinema di Venezia con il premio speciale della giuria e come miglior interpretazione femminile a Cate Blanchett.
Lo spettatore, durante la visione del film non sentirà mai parlare di Bob Dylan, ma la sua assenza è solo nel nome: conoscerà le sue sfumature d’essere profeta, poeta, imbroglione, fuorilegge, star di elettricità attraverso sei personaggi/non in cerca d’autore perché totalmente indipendenti, nonostante facciano parte di un tutto. Inconsapevolmente, loro sono dei Doppelgänger da ricomporre e afferrare per sentirsi completi, più di una persona. Ogni storia ci viene quindi raccontata per immagini mai uguali a seconda del protagonista in questione, sia nello stile narrativo che di montaggio. Si passa dal colore al bianco e nero, frammenti di ciò che è stato, è e sarà si fondono in un’unica grande scena lanciando e lasciando lo spettatore all’interno e/o all’esterno delle stanze vuote, disorientandolo fin da subito. Come tutte le opere d’arte però, riesce a farsi più profonda man a mano che va avanti (o indietro), il caos è superficie liquida che scivola via quando non verrà più catalogato, quando nessuno lo chiamerà con un nome. La trama è spezzata da flussi di coscienza, interviste, sogni, vita reale: noi ne siamo parte, come i vari personaggi/lati di Bob Dylan, interpretati da un grande cast vario ma omogeneo. (Giusto per citarne alcuni: Christian Bale, Cate Blanchett, Richard Gere, Heath Ledger, Ben Whishaw, Charlotte Gainsburg, Julienne Moore, Michelle Williams). Ognuno di loro ha potuto scoprire o riscoprire le opere e la vita di Dylan recuperando canzoni, poesie, biografie. C’è anche chi ha svuotato il suo box di cd per utilizzarlo in cucina come porta-utensili (il lato pratico dei coniugi Ledger-Williams).
Il regista Todd Haynes contamina sempre le proprie opere con la musica, l’arte figurativa, la letturatura: ricordiamo Velvet Goldmine del ’98 dedicato a David Bowie ricco di riferimenti a Oscar Wilde; Poison del ’91 ispirato ai romanzi di Jean Genet per non parlare della fotografia che in Lontano dal paradiso del 2002 rievoca le atmosfere pittoriche alla Edward Hopper e che si riallacciano all’ultimo film del 2015 Carol basato sulla sceneggiatura del romanzo di Phyllis Nagy. Haynes omaggia, inoltre, i maestri del mondo del cinema: molte scene del nostro I’m not there sono un richiamo a Godard, Fellini, Bergman, mentre eccheggiano sullo sfondo la guerra in Vietnam, Kennedy, Nixon, e le indelebili immagini televisive dei monaci buddisti che si danno fuoco per protesta.
Personaggi non in cerca d’autore.
I protagonisti sono accumunati da una ricerca del vero, della propria identità e nel modo di percepire e vivere un preciso momento storico e personale. Capitoli di esperienze che si alternano come quadri, in cui consapevolezza e disagio vanno a braccetto e quando le cose non sono più come si pensava, la fuga dalla realtà diventa necessaria: le poche certezze vacillano e dare un nuovo senso alle giornate attraverso l’amore, la passione per la musica folk, l’arte astratta, la famiglia, la libertà, la poesia assume una nuova forma essenziale, fragile, complicata.
C’è il ragazzino nero Woody Guthrie (Marcus Carl Franklin) un Huckleberry Finn rivisitato a “uomo vissuto”. Le sue disavventure picaresche tra circo, viaggi interminabili attraverso l’America su vagoni merce in notturna, stati onirico/visionari in fondo al mar, vogliono essere un omaggio di Haynes sia alle numerose storie inventate dallo stesso Dylan nel suo primo periodo per circondarsi di un’area più misteriosa, sia per riprendere la venerazione giovanile dello stesso Bob per il cantante folk Guthie. Siamo nel ’59 ma non si riesce a vivere e cantare del proprio tempo.
Billy the Kid (Richard Gere) è un fuorilegge datosi alla macchia e finito nella cittadina di Enigma, dalle atmosfere “all’antologia di Spoon River”. Non sa bene se andarsene o restare, perché questo posto lo rende invisibile anche a se stesso. Fondamentale l’after-show del funerale in cui una giovane di bianco vestita e incastonata in una bara di legno viene letteralmente esibita sul palco con tanto di musica country (canzoni rural-popolari di un’America lontana e che ricordano la riscoperta da parte di Dylan nell’album The Basement Tapes): Billy diventa non-spettatore tra la folla, ma la maschera che trova per terra e che indossa non gli basterà per nascondersi dietro un passato che continua ad emergere.
Arthur Rimbaud (Ben Whishaw, attore legato a interpretazioni di poeti: ricordiamo anche il suo diventare John Keats in Bright Star) è interrogato sotto processo. Rompe il silenzio (la cosa che più terrorizza la gente) e lo farà gettandoci adosso verità spiazzanti: un misto tra le interviste di Dylan e le poesie del poeta simbolista che oltre al cantautore, ha ispirato altri artisti nel Greenwich Village negli anni ’60. Arthur, nonostante la sua aria scapigliata da poeta maledetto, si professa agricoltore non fatalista.
Christian Bale è contenuto nello spazio tra due personaggi scanditi nell’evoluzione del proprio passato in bilico con il prossimo futuro. Nelle canzoni alla classe operaia è Jack Rollins (il lato biografico dall’ascesa musicale al punto di non ritorno è documentato nell’intervista narrataci da una Julienne Moore post femminista/folk). Jack è il portavoce del disagio verso la società, la sua immagine “abbottonata” (alla copertina Freewheelin’) lo insegue sempre e ovunque: nelle passeggiate per le strade come negli studi televisivi.
Jack è conscio di un mondo in cui si vuole dar sempre una dimensione politica alle cose, eliminando il lato vero e poetico di un pensiero, di una canzone, di un attimo. In cui sembra necessario e obbligatorio voler impossessarsi di tutto e tutti per trovare quello che David Foster Wallace definiva “un antidoto contro la solitudine” ma quando quel qualcosa è incapace di essere etichettato ecco che tutto ci sfugge e lascia nudi. Jack fa svanire il resto che ci circonda nel suo canto antico, primordiale e pieno di grazia al tempo stesso, riportandoci così al nostro tempo dimenticato. Il sollievo però è solamente momentaneo, non lo riesce a liberare: per Jack una canzone folk non cambierà lo stato delle cose, perché si esprime in modo poetico e non politico. La fuga che ne consegue e la rinascita cristiana come pastore John, segnano anche la conversione religiosa dello stesso Dylan: parlare del passato non è più ammesso, sono entrambi ritornati da una stagione all’inferno.
Charlotte Gainsbourg è Claire: artista astratta, madre di famiglia e moglie dell’attore Robbie Clark (Heath Ledger). Quando al telegiornale annunciano la conclusione della guerra in Vietnam, capisce che adesso tutto è finito, davvero: la situazione politica è lo spettro sugli anni del matrimonio (anche di quello tra Dylan e Sara). Parte la retrospettiva del ’64 su un amore che fu: Nouvelle vague al Greenwich Village. La voce narrante è quella di Lui, attore sospeso nella biografia di Jack Rollins e quella di se stesso. Si erano conosciuti a N.Y quando c’era amore nell’aria, anche nei cafès pieni di fumo. Il desiderio, l’esser pronti ad ascoltare, mai stanchi, tristi o colpevoli.
Interno giorno/notte: Lei è pensiero: dipinge e legge poesie (i rimandi godardiani ad Anna Karina sono inevitabili) Lui sigaretta sul divano, un libro: l’incarnazione della volontà di Essere il centro del proprio mondo. Esterno: passeggiano abbracciati parlando di quello che gli viene in mente prima della proiezione del nuovo film di lui ma tutto questo è destinato a finire quando sappiamo che Io è qualcun altro/ Je est en autre: scoprire di essere lo straniero di se stessi, con i fallimenti che ci allontanano e rendono incapaci di comunicare. Sempre in apnea: respira, emergi dalla vasca! Vuoi fuggire ancora dalla vita e dal suo continuo mutamento?
Cate Blanchett è l’ibrida silhouette di Bob: Jude Quinn. Nuove svolte cariche di elettricità non apprezzate in Inghilterra: Hey Jude: don’t look back. La maschera del sarcasmo è tra lui e i giornalisti, oltre c’è la consapevolezza di Jack Rollins: nessuno verrà convertito da una canzone.
“Il grosso merito dell’ironia è che spacca le cose a metà e va a guardarle dall’alto, così da rivelarne i difetti, le ipocrisie e le duplicità”. (David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine, edizioni Minimum Fax)
Jude divide le giornate del tour tra interviste e suites di grandi alberghi, il party in giardino è l’ennesimo obbligo sociale: allontandosi dal banchetto dell’ipocrisia incontra “il bianconiglio” (che più ad Alice nelle meraviglie rimanda a Grace Slick) Coco: la regina dell’underground/Factory Girl (Michelle Williams). Occhio però all’entusiasmo e all’amore: (ci ricorda il nostro Arthur Rimbaud) sono temporanei e facili da fluttuare. Jude non capirà mai fino in fondo perché amore e sesso sconvolgono così le persone o perché l’artista per essere libero ha costantemente bisogno di fuggire dalla definizione fisica. Non vuole che altri gli dicano come deve stare (anche Bale nell’intervista ci racconta che vuole scoprire nuovi stimoli da solo, con i propri tempi e senza costrizioni). Forse la soluzione sta nel non creare mai niente perché verrà male interpretato, ti incatenerà e perseguiterà per il resto della vita. La musica della tradizione è un mistero, un enigma: troppo irreale per morire, sempre piena di caos nonostante alla base sia di un’insignificanza sacra che la rende pura.
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