
Venezia73: La La Land e la magia del musical
September 1, 2016Basterebbe il piano sequenza iniziale (qualche mascherato e invisibile stacco di montaggio probabilmente c’è, ma va benissimo) a far subito entrare La La Land tra i migliori prodotti cinematografici di questo 2016 e nei futuri manuali di storia del cinema per la complessità della sua realizzazione e l’ingegno registico, ma nella sua interezza il film è così ottimamente realizzato da spazzare via ogni paradigma legato al genere musical delle ultime decadi. Chazelle sa cosa e dove andare a pescare, dal jazz in ogni sua derivazione ai grandi film del passato, non solo i musical di Stanley Donen e Vincente Minnelli, ma anche i classici per antonomasia come Casablanca, citato e ricitato ciclicamente, fino ad arrivare all’epoca del cinema muto americano (la scena della danza tra le stelle è un chiaro omaggio a Lonesome di Paul Fejos, e insieme alle innumerevoli locandine disseminate nel film spunta anche quella di The Dove di Norma Talmadge).
All’interno del genere, la particolarità di La La Land è quella di evitare l’happy ending e di retrocedere sui suoi passi e illudere protagonisti e spettatori che finiscono proiettati in una magica confusione. Il maestro William Friedkin ha sempre ribadito nelle sue più recenti interviste quanto l’epoca dei musical costituisca la vetta più alta, in termini produttivi e realizzativi, del cinema hollywoodiano. Condivisibile o meno, c’è della verità dietro le sue parole e Chazelle, con La La Land, conclude così la sua “trilogia sulla musica” composta dallo straordinario Whiplash e Guy and Madeline on a Park Bench (il suo primo lungometraggio girato quando ancora era studente e nel quale erano disseminati echi e accenni che avrebbe poi sviluppato questo suo ultimo lavoro) e riporta il genere sul trono che gli spetta. Ah, e quando ha girato il film aveva appena compiuto solo trent’anni, un po’ come Donen che ai tempi di Singin’ in the Rain ne aveva anche meno.
– Simone Tarditi
Impossibile non aver voglia di ballare fin dalla prima scena: persone imbottigliate nel traffic jam californiano che scendono dall’auto e “improvvisano” una coreografia mentre cantano tutti insieme. Si esce dalla sala continuando a sentire nell’aria del Lido l’intro di “City of stars”, forse per non pensare a quel finale dolce/amaro e rimanere ancora un po’ nella favola della danza delle ore di due amanti, tra sfondi interstellari e vortici di vestiti coloratissimi.
– Mariangela Martelli

Inizia il film ed il pubblico già batte i piedi a ritmo di jazz, il trasporto è tale che vorresti alzarti dalla poltroncina ed improvvisare un tip tap in pieno stile Fred Astaire sulle vorticose e frizzanti melodie composte da Justin Hurwitz. Ma se la prima parte è pregna di colori sgargianti e ritmi scanditi da un montaggio accuratamente frenetico, la seconda parte ci riporta in un mood molto più incline a Whiplash, dove il duro lavoro non sempre ripaga e l’amarezza divora ogni fievole traccia di speranza.
La bravura di Chazelle sta nel valorizzare ciò che è un classico (il jazz e il musical come genere cinematografico) inserendolo in un contesto fresco, celebrando così lo splendore d’altri tempi con sì, un pizzico di nostalgia, ma guardando al futuro. -Angelica Lorenzon
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