Lunedì mattina in sala Darsena per il documentario One More Time With Feeling presentato fuori concorso a Venezia73 del regista Andrew Dominik, che scava nell’anima del cantautore Nick Cave e all’interno delle parole del suo sedicesimo album “Skeleton Tree” in uscita il 9 settembre, mentre il film sarà disponibile su grande schermo nelle sale italiane solamente per due giorni: il 27 e 28 di questo mese.
Dominik e Cave avevano inizialmente concepito l’idea di una pellicola-performance che però si è trasformata in qualcosa di più profondo a seguito della tragica perdita del figlio del cantante avvenuta lo scorso anno. Cave sente però la necessità di dare un senso al proprio stato di paralisi, del buio lacerante che porta dentro chiamando per nome l’assenza che lo tormenta e non lo fa respirare. Ascoltiamo i brani del suo nuovo lavoro nella melodia del pianoforte che suona e nella voce che plasma l’urgenza della ricerca, nel dare un diverso significato alle immagini ipnotiche della propria mente e cuore: si evocano anche ragazze intrappolate nell’ambra, cieli lontani, alberi scheletrici e anelli di Saturno.
Dominik racchiude l’essenza di Cave nelle inquadrature in bianco e nero all’interno dello studio di registrazione e nel rivelare il proprio sguardo fuori dal finestrino, in macchina. Questa è la fotografia di un uomo, di un padre, di un artista e marito in costante mutamento, le riprese in 3D e 2D si alternano come visioni consapevoli che si susseguono nella distanza, nelle stanze vuote, nelle scale a chiocciola viste dall’alto. Non esiste narrazione nella storia di Nick ma solo un presente post trauma, un momento incorporeo che non riesce ad afferrare.

Cave si racconta nella quotidianità, nella solitudine come nella condivisione del tutto insieme alla moglie
Susie Birk: la sua musa reale evocata nelle ballate. Ed e’ allora che tra superfici e profondità paragona la
bidimensionalità dell’uomo alle sfumature femminili fatte di tridimensionalità, lo spettatore percorre i frammenti di Susie sul lungomare, vicino al molo di Brighton, (la città in cui la famiglia vive) davanti alla finestra o mentre scende le scale con una tazza di tè tra le mani.
Nick continua il racconto svelandoci quanto gli sia difficile alle volte riuscire a mettere a fuoco la moglie in un’inquadratura, di come la sua anima inafferrabile e mutevole rientri poi all’interno della cornice quando meno se lo aspetta ma con qualcosa di diverso non più uguale a prima. Riscoprirsi e trascendere insieme la realtà delle cose e darne un senso, nel ricordo tangibile appeso alla parete: la fotografia che li ritrae giovani di fianco, una vita ancora da scrivere, in una gestualità distinta ma non distante, forte nella propria individualità e al tempo stesso unici ed essenziali l’un per l’altra.
Ricordiamo un certo legame tra Nick Cave e il mondo del cinema: con il regista tedesco
Wim Wenders, presente non solo alla Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno (il cantautore suona al pianoforte “Into my Arms” nel film
Le beaux jours d’Aranjuez), ma anche nel film dell’84
Il cielo sopra Berlino con la canzone “From here to eternity”. Ed inoltre nel documentario del 2014 di Forsyth e Polland
20.000 giorni sulla terra.
One More Time With Feeling è Nick Cave oggi, nelle sue fragilità e angosce, nel suo tentativo di sopravvivere al dolore, nella volontà di dare e ricevere qualcosa che conosce, ricordando ciò che di più naturale gli sfugge. (Mariangela Martelli)

L’ammirazione di Andrew Dominik per Nick Cave risale a quando era ancora un ragazzino e la figura del cantautore australiano stava già entrando nella leggenda e già dieci anni fa, durante la lavorazione del film su Jesse James, i due avevano avuto la possibilità di collaborare insieme (Cave non solo ha composto la colonna sonora, ma recita anche una piccola parte, chitarra imbracciata, all’interno di un saloon).
In One More Time With Feeling, l’approccio a metà strada tra film-concerto e seduta pseudo-psicanalitica condotta da Dominik passando per un approccio documentaristico classico riporta alla mente quello di Chopper, le lunghe interviste (quelle vere a Mark Brandon Read nel making of e quelle del film vero e proprio). Il regista sa improvvisare su cosa riprendere giorno per giorno (sui pulmini che viaggiano da un hotel agli studio di registrazione, a casa di Nick Cave, nell’atelier della moglie, per strada), ma soprattutto è in grado di delineare un ritratto tanto dell’artista quanto dell’uomo, in preda ai suoi traumi, ai suoi timori sul futuro, alle sue vertigini.
Andrew Dominik ha ammesso in conferenza stampa di aver sempre amato il 3D e la possibilità di poterlo utilizzare per la prima volta nella sua carriera per un progetto così intimo come One More Time With Feeling, adoperando anche un bianco e nero ricchissimo di sfumature, è stata per lui l’occasione perfetta per sperimentare con successo questa soluzione. Al di là della spettacolarità contenuta all’interno dei luoghi chiusi, c’è spazio per mostrare un lato di Nick Cave ancora inedito anche ai fan più accaniti. Il recente lutto (la morte del figlio Arthur) ha messo in crisi l’immagine che di se stesso lui si era creato col tempo: l’icona del poeta e rocker si sta sgretolando pezzo a pezzo, lasciando a terra i brandelli di un’esistenza vissuta pienamente e ponendo interrogativi sul senso del vivere (sembra quasi il Mickey impersonato da James Gandolfini in Killing Them Softly quando al suo partner in crime Jackie Cogan, Brad Pitt, gli dice “Tanto questa merda [la vita] non significa niente comunque“).
Ecco che dietro la sicurezza, la creatività, il tenere in piedi una carriera, sgattaiola fuori un’anima piena d’insicurezze e di paure. Farcela nella vita, sì, ma per cosa? Forse ha senso continuare ad alzarsi al mattino e produrre qualcosa solo per non pensare al vuoto onnipresente istante dopo istante, a quella condanna insita nel patto che si sottoscrive quando non si accetta di nascere, ma si sa di dover morire prima o poi. In quei precisi momenti, esattamente come sua moglie si rifugia nell’arte sartoria, per Nick è vitale tornare a suonare note elegiache sul suo pianoforte, nero come una bara e su cui si riflettono i cavi del microfono, troppo simili a filo spinato per poter sperare di poter fuggire da quella condizione chiamata sopravvivenza. (Simone Tarditi)
"Into this house we're born.
Into this world we're thrown".
-Jim Morrison
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