
Venezia73: David Lynch: The Art Life. Caos e Creazione
September 7, 2016A Venezia73 é stata proiettata un’ora e mezza di David Lynch: The Art Life, nel documentario realizzato dalla collaborazione tra i registi Rick Barnes, Jon Nguyen e Olivia Neergaard-Holm.
Il trio ha impiegato un dozzina di anni per raccogliere foto, aneddoti e frammenti video essenziali per dar luce al progetto che abbraccia i primi trent’anni della formazione di Lynch e da lui stesso definito come una sorta di “testamento spirituale” del suo universo di idee.
La nascita di un’artista a 360 gradi parte dalle radici dell’arte figurativa per estendersi alla settima arte e continuando oltre tra scultura, scrittura e musica elettronica.
Lynch inizia la propria storia attraverso i ricordi dell’infanzia felice trascorsa in un paese di provincia in Virginia perché l’influenza del proprio passato è il fulcro nella visione che ha del mondo circostante, plasmandolo di riflesso attraverso l’atto creativo.
Il periodo del primo contatto con l’arte avviene attraverso la pittura: David è un bambino che ha problemi di apprendimento dell’alfabeto, un blocco che verrà superato nel dedicarsi al disegno: un mezzo per esprimersi ed esorcizzare un limite, ripreso in seguito nel corto sperimentale del ’68 The Alphabet, un’animazione a colori in stop motion di quattro minuti dal sonoro distorto.

Continua la ricerca per estrapolare il cosmo che ha dentro, gettandolo senza mezze misure sulle tele polimateriche: è grazie all’amico Toby Keeler, figlio del pittore americano Bushnell Keeler che non solo gli permetterà di conoscere l’arte figurativa ma che ne influenzerà l’immaginario, la sua idea di “vivere l’arte” costituita anche di caffè e sigarette.
Sono questi gli anni delle foto in cui lo vediamo sempre con i fratelli o la madre, in mezzo alla campagna, sorridente. La famiglia Lynch si trasferirà poi a Philadelphia, città che segna in modo indelebile l’adolescenza di David, dal suo umore irrequieto alle foto delle fabbriche abbandonate, passando alle serate con gli amici on the road in autostrada, come un’anticipazione all’intro del film che realizzerà più tardi Strade Perdute.
Nel ’66 inizia a studiare pittura alla Pennsylvania Academy of Fine Arts: le sue opere sono grezze, le figure infantili rielaborate in chiave gotico/macabra danno voce all’ansia di vivere, ai tormenti e alle paure che lo attanagliano, in un continuo esprimere le proprie manie e paranoie tra stati reali e onirici. Si percepiscono così tutte le contraddizioni, gli effetti negativi dell’educazione familiare che ha ricevuto “nell’idea di dare l’impressione di un dipinto vivo”.
Si dedicherà inoltre ai mosaici geometrici del suo progetto Industrial Symphonies e alle prime riprese, infatti è dello stesso anno il minuto di animazione in loop Six figures getting sick in cui utilizza come schermo una scultura, ma l’esigenza di contaminare la propria esistenza con altre forme artistiche e la volontà di cercare ispirazione altrove lo porterà a Salisburgo con l’amico Jack Fish, l’intenzione di rimanere lì tre anni per studiare il pittore espressionista Oskar Kokoschka si trasformerà in un breve soggiorno di quindici giorni perché David capisce subito che non era quello l’ambiente che cercava per trovare nuovi input.

Un altro cortometraggio sempre in stop motion dal suono sporco arriva nel ’70: The Grandmother realizzato completamente in casa (ad eccezione di un paio di scene in esterno) dopo aver sistemato le stanze in set. Il protagonista è un bambino che annaffia la nonna/seme in un dedicarsi al “giardinaggio dei fiori del male” in totale assenza di dialogo.
“Il mondo è diventato una stanza rumorosa, il silenzio è il luogo magico in cui si realizza il processo creativo”.
David dispone gli spazi, svuotandoli completamente per riempirli con il cosmo che ha dentro la mente, in una sorta di paradosso zen che si porterà dietro negli anni anche attraverso la meditazione trascendentale nella necessità del silenzio, del buio lontano dalla colori del boulevard al tramonto. Il legame di casa/bottega sarà mantenuto anche nei tre anni trascorsi all’American Film Institute, in quanto le stalle in cui alloggerà diventeranno il suo microcosmo, il luogo ideale per creare e respirare la propria arte ventiquattro ore su ventiquattro e girare Eraserhead, anche per tenersi impegnato in un momento personale fatto di problemi economici e rielaborazione post matrimonio: si era infatti separato da poco dalla prima moglie Peggy Lentz e dalla figlia.

In David Lynch: The Art Life emerge chiara e costante l’intenzione del regista di mantenere separati i suoi mondi interiori, le sue vite surreali dai rapporti con le persone a lui vicine. Tutto ciò emerge evidente nell’episodio di quando ha nascosto la relazione/convivenza con la prima moglie non appena suo padre gli ha detto che sarebbe passato a trovarlo: la felicità di David di mostrargli se stesso nelle opere tenute in scantinato e nel condividere con il genitore la propria visione e sentire le cose si spegnerà nel risalire le scale, nel consiglio disilluso del padre che gli risponde con un tono carico di conturbante preoccupazione.
Il documentario mette inevitabilmente a nudo i mondi paralleli lynchiani e lo fa catturando lo spettatore in un’atmosfera magnetica, sulle note ipnotiche della colonna sonora post/industriale che riecheggia tra le parole scarne di David che dedica il tutto all’ultima nata in casa Lynch, dal quarto matrimonio con Emily Stofle: Lula è una bambina di quattro anni che vediamo seduta alla scrivania con il padre, poco lontani dalla copia del trittico Il giardino delle delizie di Bosch, in bilico costante tra caos e creazione.

“L’idea è tutto. Non tradirla e ti dirà tutto ciò che c’è da sapere, sul serio. Basta che continui a impegnarti perché il risultato abbia lo stesso aspetto, la stessa atmosfera, gli stessi suoni e sia preciso identico all’idea. È strano, quando ti allontani dal percorso, in qualche modo lo sai. Capisci che stai facendo qualcosa di sbagliato, perché lo senti”.
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