
Venezia73: À Jamais, quando le parole non prendono forma
September 15, 2016“Forse ci sono momenti in cui scivoliamo dentro un’altra realtà senza ricordarlo, senza accettarne la verità perché sarebbe una cosa troppo sconvolgente da assimilare”. (Don DeLillo, The Body Artist, Einaudi)
La nuova pellicola di Benoit Jacquot, À Jamais, è stata presentata fuori concorso nell’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, da poco conclusa. Il regista lavora alla sceneggiatura (a quattro mani con Julia Roy) partendo dal romanzo breve di DeLillo: “Body Art”, mantenendone una dimensione tra realtà e irrealtà che rimane ipnotizzata in movimenti lentissimi, di pensieri non detti e bellezza di immagini mute, morenti.
Rey (Mathieu Amalric) è un regista e scrittore. La sera della prima del suo ultimo lavoro è al cinema con sua moglie (Jeanne Balibar) ma non appena sullo schermo inizia la proiezione i due lasciano la sala ed escono separati. L’uomo incontra in corridoio una giovane donna: Laura (Julia Roy) che ha da poco finito di esibirsi nella sua performance di attrice e ne rimane inevitabilmente affascinato dalla questa silhouette delicata ed evanescente che sembra sfuggirgli. La segue, si guardano, poche parole e vanno via insieme, sulla moto di lui. Le sequenze lungo l’autostrada in notturna con i visi incorniciati dai caschi e i vestiti attaccati al corpo sono un presagio su ciò che succederà (volontariamente?) a Rey in un futuro non troppo lontano. In giornate tutte uguali che sembrano intrappolate nella materia dei sogni, si ritrovano amanti, nella casa troppo grande di lui, isolata, affacciata sul mare. Tutto è precisione minimale, denudata all’essenza: dall’architettura in cui si muovono i protagonisti nella mise èn scene della loro relazione ai silenzi e parole gettati sul palco delle loro stanze, come attori del teatro nō giapponese. Il ricordo dello spazio che li circonda sembra limitato dalla loro fisicità. Ed inizia a piovere sulla città piena di luce che è Lisbona, riempiendo di saudade il vuoto lasciato. Lei si appropria dei gesti di lui, nella routine dell’assenza, rivive sulla propria pelle i rituali che componevano insieme nella luce del mattino, preparando la colazione. Riveste la noia con ciò che si son detti, va alla finestra cercando di afferrare con le dita l’eterno sogno che non arriva. Nell’aria il disegno scende lieve su ciò che è stato e non è più, le labbra di Laura si muovono in un automatismo privo di voce, non chiamando per nome il suo dolore. Nel riallineare gli attimi che scorrono è un cercare l’idea di Rey, ogni odore, abitudine o sussurro viene rievocato da Laura. Una sensazione sfuocata le passa accanto, scuotendola: ecco l’uomo nella sua rappresentazione sotto nuova forma, spazio vuoto. E non basta ripercorrere il passato a piedi nudi, insieme tra interni ed esterni che vanno svanendo per annullare questo sentirsi a metà. Ritrovarsi nei nomi mai pronunciati, respirando lo stesso sonno non è mai abbastanza. Il ritmo splendente del crepuscolo vacilla in un’identità da ricostruire.
Come un rendez-vous atteso durante la giornata, gli amanti di un tempo si svelano di notte in frasi dette ad alta voce, con la stessa voce da due estranei, per poi sprofondare e sovrapporsi nell’eco dell’anima io-tu. Lo spettatore si sente confuso, abbandonato ad una brutale solitudine, a un senso di non narrazione che disorienta nelle immagini e nei dialoghi. L’atmosfera si tinge dei toni tra il thriller-psicologico e il melodramma per poi cadere all’improvviso nel rumore della distanza: concreto, inesorabile. La colonna sonora composta da Bruno Coulais sembra volerci preparare ad un temporale, a un telefono che non squilla, a qualcosa che non c’è perché sparito per sempre. Laura è una donna, un’artista, un’amante che sente di vivere una e più vite, ma sempre con la percezione di essere scissa dal dolore e dalla sua immensità. Dovrà plasmare sulla propria pelle un diverso modo di esprimersi non solamente per rielaborare la perdita ma anche per attraversare il trauma con la propria arte, chiamando per nome la propria l’identità e fisicità che vanno mutandosi. À Jamais lascia ogni cosa (e lo spettatore) in sospeso, nella fragilità del non-vivere. In un’idea che fa di tutto per prendere forma, per riuscire a comunicare.
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