
Polvere di stelle, il sogno americano nell’Italia della Guerra
October 10, 2016“Il successo è come una malattia grave: te lo porti dietro tutta la vita”
Roma, 1943. In Galleria Colonna passeggiano, bighellonano e ingannano il tempo barzellettieri, nullafacenti e attori straccioni, tra cui Mimmo Adami (Alberto Sordi) e Dea Dani (Monica Vitti). Soldi non ce ne sono e viene usato ogni mezzuccio per raccattare o farsi imprestare qualche lira. L’Italia dei poveracci e della classe media ridotta allo stremo è la stessa Italia di Polvere di stelle, con l’arrivo (ormai prossimo) delle truppe americane e la lenta e incessante liberazione di tutto il territorio. Nella capitale di sessant’anni dopo (il 2003, anno di morte di Alberto Sordi) quella Galleria verrà ribattezzata col nome e il cognome dell’attore romano, il vero mattatore della commedia all’italiana. Una targhetta a sigillare un punto di contatto tra vita reale e arte della finzione.
“Dea, c’è tutta l’America! Manca solo Eisenhower!”
Fuori dalla parabola del mestiere dell’attore e degli spettacoli di varietà, Polvere di stelle (Alberto Sordi, 1973) è il ritratto di un’Italia smarrita in balia dei sogni irraggiungibili dell’America, tra incanto e disincanto. Mimmo Adami fa tutto quello che può, camminando lungo un filo teso sull’abisso del fallimento, per far sì che lui e la sua compagnia teatrante riescano a raggiungere la popolarità, ad agguantare almeno per un istante il successo del pubblico sperato così a lungo e per il quale attraversano letteralmente mari e monti. Quel modello di gloria altro non è che una irreplicabile copia di quello di Broadway e poi Hollywood, perfetta sintesi di quel sogno di vita che vede la figura di un uomo di teatro trascinato nella mecca del cinema a stelle e strisce per i suoi meriti.
E ce la fanno. Sfuggendo miracolosamente alla deportazione e al patibolo, la disorganizzata comitiva di semiprofessionisti riesce nell’impresa di mettere in piedi uno spettacolo tutto suo, una riproposizione su larga scala di mediocri recite, funestate da mille inconvenienti, portate in giro per l’Italia Centrale. E ciò che viene presentato altro non è che uno show omaggiante l’America (celeberrima la canzone Ma ‘ndo Hawaii diventata ormai patrimonio nazionale), la sua presunta bellezza, la sua forza, e ciò che rappresenta per gli italiani, che per decenni l’hanno segretamente pensata tra le invisibili pieghe dell’immaginazione durante il regime fascista e che finalmente -con la liberazione- possono adorare pubblicamente e alla luce del sole.
Se il film Tutti a casa (Luigi Comencini, 1960) di fatto s’interrompe mentre la resistenza e gli americani, pezzo a pezzo, stanno rendendo libera l’Italia e il Sottotenente Innocenzi, interpretato sempre da Alberto Sordi, smette di fuggire per imbracciare le armi contro quello che è diventato il Nemico, ergendosi come figura pienamente positiva, il Mimmo di Polvere di stelle rappresenta invece l’Italia che trova un rifugio senza prendere coscienza e avere consapevolezza di chi è, in un completo smarrimento della propria personalità, ridotta ad una goffa incarnazione di chi si vorrebbe essere, ma non si è.
“L’America è un grande paese che aiuta tutti”
Analoga deformazione di un luogo beatifico (Hollywood) verso il quale incanalare pensieri e speranze è perfettamente ed emblematicamente esplicata nell’avventura amorosa che coinvolge Dea Dani e John, il bel marinaio americano. Quando finalmente cede al suo corteggiamento spietato, nonostante l’unione coniugale e non solo professionale con Mimmo, l’attricetta di teatro sovrappone su di lui diversi strati di un immaginario precostituito a partire da elementi provenienti proprio dal cinema: le associazioni mentali che legano insieme la California, i film western, il volto di Gary Cooper provocano in lei un cortocircuito tale da dimenticare, per almeno il tempo di una sveltina sulla jeep, tutto quello che era stata la sua vita fino ad allora. Dietro all’apparenza di John e le sue finte promesse di portarla negli USA, di farle conoscere sua madre, di sposarla e di farla vivere come una regina della West Coast si cela la figura di uomo senza scrupoli, bramoso solo di portarsela a letto e di sbarazzarsene subito dopo aver soddisfatto il suo desiderio, ma quando lei se ne accorge (sempre che lo faccia per davvero) è troppo tardi.
Dall’altro lato della barricata, ad aspettarla in teatro per ricoprirla freddamente d’insulti, ma impossibilitato di fare a meno di lei sul palco, Mimmo prova a godersi quel poco che rimane del successo raggiunto, smontato però della sua colonna portante. Emerge così, nel caso in cui non si fosse ancora capito (e Polvere di stelle è pieno di episodi in cui il protagonista interpretato da Sordi non vede o non vuole vedere quel che gli capita attorno, riguardante soprattutto la sua Dea), la caricatura infelice di un uomo solo, guidato da sogni che ha preso in prestito da chi, a differenza sua, ce l’ha fatta davvero. Mimmo poi, qualche scena dopo, è così in balìa delle favolette hollywoodiane da recitare la parte fasulla del marito che capisce e che perdona Dea, tirando fuori la blasonata metafora del bruco (lei) che si trasforma in farfalla (la nuova versione di lei), esattamente come se si trovasse all’interno di un film melenso quando quella che sta lì vivendo sulla terrazza di un hotel di Bari occupato dai salvatori americani è, o almeno dovrebbe essere, la sua vera vita, sempre che questa possa essere ancora definita tale.
“Certo che questi americani dove arrivano fanno il miracolo, dove ci sono loro la gente è felice”
La salvezza e la liberazione dalla Guerra ad opera delle truppe americane sbarcate nel Sud Italia, che in Polvere di stelle si concretizza nella realizzazione dello spettacolo di varietà che dà il titolo al film, diventa per Mimmo la fine di tutto quello per cui ha lottato fino a quel momento: il tradimento di Dea e, poi, il mancato rinnovamento del contratto presso il Teatro Petruzzelli nonché il successivo sfaldamento di tutta la sua compagnia. È come se il sogno si fosse disgregato non appena è stato sfiorato, confermando la sua natura illusoria, effimera, immateriale e, come la polvere di stelle, inesistente.
Il finale amaro e necessario si ricollega alle considerazioni fatte all’inizio e, nella sua spettrale rappresentazione del crollo del “sogno americano”, sembra essere l’unico, nonché l’ultimo momento, in cui i protagonisti di Polvere di stelle camminano coi piedi per terra, quasi strisciandoli, trascinandosi fuori dall’inquadratura, fuori dalla cornice cinematografica, fuori dal film, fuori da tutto, estraniati, fuori dalle loro stesse vite, fuori dai loro corpi, ormai ectoplasmi.
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