
The Space in Between, attraversare il dolore con l’arte della performance
October 10, 2016In “The Space in Between: Marina Abramovic and Brazil”, il regista Marco del Fiol documenta di quando l’art performer Marina Abramovic ha intrapreso il viaggio in Brasile tra la fine del 2012 e inizio 2013, una necessità da lei sentita per riuscire a rielaborare e lasciarsi alle spalle il trauma post-abbandono sentimentale da parte di Klaus Biesenbach, curatore d’arte al MoMa di New York. La volontà della donna di rendere reale l’automatismo onirico che la insegue nei sogni ci viene raccontata nell’incipit in voice-off: il passato diventa forma nebbiosa, un’immagine intangibile di due figure racchiuse in una barca avvolta nell’abbraccio dell’oceano e del cielo. La pellicola, presentata al Biografilm Festival, non è solamente un documentario on the road sull’esperienza sudamericana della “nonna della performance art” ma anche una testimonianza personale di Marina. I primi piani sul suo viso struccato ci parlano della solitudine e sofferenza dell’ultimo periodo, le parole non servono a trasmetterci il dolore che porta con sè: bastano gli occhi fissi sullo spettatore per filtrare la sua intimità. All’autobiografia-intervista della Abramovic si alterna la suggestiva ed evocativa fotografia degli spazi naturali in cui vengono fusi tutti gli elementi socio-antropologici dei diversi popoli che li abitano. Avvertiamo i secoli di storia del Brasile e di come la cultura indios e africana si sia stratificata nel corso del tempo, a stretto contatto con la natura incontaminata. Ed è proprio nell’immensità verde della foresta pluviale che Lady Abramovic entra per spogliarsi delle angoscie e svuotare l’anima dai pesi che la opprimono, cercando costantemente nelle radici dell’ ambiente primordiale un confronto/conforto con la Madre Terra.
Un percorso fatto di incontri
La prima tappa di Marina è dal curandero Joan de Deus: un guaritore-medium che ad inizio film opera “i suoi fedeli” (rimasti in fila anche una giornata intera) quasi “senza vederli, in stato di trance” per donare loro la perduta armonia spirito/corpo. Un esempio di come le tradizioni arcaiche siano radicate e fortemente percepite da una grande parte della comunità brasiliana (e di come questo caso di “medicina miracolosa” sia “studiato” in vari paesi del mondo).
Il viaggio continua con la visita alla casa, in mezzo alla foresta, di Dona Flor, un’anziana ostetrica che ha trascorso la vita a stretto contatto con la natura, nel suo ruolo di Raizeira: nonostante il suo analfabetismo è un’esperta nel saper riconoscere le piante che impiega per curare le persone, “un dono” scoperto per caso quando era bambina. Con la sua storia, ci troviamo nello stato di Goias ad Alto Paradiso, luogo simbolico scelto da Marina per la propria rinascita spirituale.
Ma è a Vale do Cãpao nella regione della Chapada Diamantina, che la Abramovic conosce l’Ayuhausca, bevanda utilizzata dagli sciamani a scopo curativo/magico/visionario. Se ne fa offrire due tazzine di questa “liana degli spiriti – o dei morti” (secondo l’etimologia dell’antica lingua Quechua) nella speranza di raggiungere uno stato allucinatorio che la possa connettere a un sentire più alto e profondo, oltre il proprio corpo e anima. In realtà quella che segue sarà una notte fuori controllo: lo star male fisico della donna non le estirperà il dolore celato, anzi lo riporterà in superficie, sulla propria pelle.
Sarà al Centro de estudos ancestrais Raìzen de Dan a Curitiba che Denise Maria, studiosa degli Orisha (semi-divinità appartenenti alla mitologia dei popoli africani degli Yoruba) aiuterà Marina a liberarsi dai tormenti e dai fantasmi del passato. All’ombra degli alberi secolari della mata brasiliana, Denise passerà un paio di uova sul corpo della performer, oggetti capaci di assorbire i tormenti e i traumi della vita. Una volta terminato il processo di estirpazione del dolore, Marina dovrà rompere le uova con le proprie mani per liberarsi da ciò che la opprime.
“Posso tollerare il dolore fisico, ma non posso tollerare il dolore spirituale” confesserà al fotografo Marco Anelli, durate gli scatti alla cascata presenti nel film “The Space in Between”.
Il corpo attraverso l’atto creativo, si carica di tutta la sofferenza interiore, diventando un mezzo per destare una reazione nello spettatore.
La performance come rito
E’ a Salvador, nella chiesa di Senhor do Bonfim che Marina nel vedere i pellegrini di bianco vestiti sfilare gli 8 km di processione tra vasi di acqua profumata, balli e canti dal sapore antico della terra d’Africa degli Yoruba, si domanda se anche il suo fare arte possa essere paragonato ad una sorta di rituale. Se la perdita di controllo/conoscenza durante le sue performances sia in grado di scatenare nell’altro una forte reazione emotiva, la stessa che prova lei nell’osservare questo mare di fedeli. Marina paragona la lunga durata del suo flusso creativo al rituale religioso brasiliano a cui assiste: in entrambi i casi il tempo sembra annullarsi, le ore sono plasmate dalle forme, immagini e gesti compiuti in successione, senza interruzioni.
“La verità nella performance è la verità della performance in sè”: Marina, nella fisicità, riesce ad esprimere ciò che porta dentro, esorcizzando un qualcosa che non possiamo toccare. La percezione avviene nell’incontro con lo spettatore, l’altro che non rimane estraneo, anzi è proprio la sua interazione con l’artista che gli permette di trasformarsi nell’oggetto-anima dell’esecuzione. La performance diventa l’essenza che collega l’azione della creatrice-Marina con la reazione del pubblico. Al finale del flusso creativo, l’art performer riesce a distanziarsene, ad essere fuori dal proprio dolore, in una sorta di catarsi rigeneratrice. La scelta di “mettere in scena” i sentimenti negativi è un modo per superarli, per uscirne trasformati. Nelle sue “opere” la felicità non è mai la protagonista, perché come dirà l’artista “è uno stato che nessuno vuole mai alterare.”
Marina è una donna che vive per l’arte e per il pubblico, nella sua costante ricerca di equilibrio in bilico tra empatia-grazia-pericolo-dolore-trasformazione c’è sempre la forza creatrice che la porta a sperimentare, a rinnovarsi andando oltre il confine della propria pelle e che la fa essere innamorata del mondo. E’ allo spettatore che regala il momento dell’atto artistico, carico di tutta la fragilità, vulnerabilità e forza del suo essere presente, perchè ciò che per lei è fondamentale lo trova in chi la guarda e partecipa attivamente in uno scambio emotivo. Il bisogno di essere e sentirsi amata è una fragile richiesta nata durante l’infanzia nella terra d’origine, la Serbia, scandita da un lato dall’influenza della nonna devota alla chiesa ortodossa e dall’altro dalla ferrea disciplina dei genitori partigiani della seconda guerra mondiale, eroi della nazione ma così lontani dalla figlia. Gli anni della formazione artistica all’accademia di Belle Arti, con i professori che preferirebbero vederla rinchiusa in manicomio, porteranno Marina a cercarsi un altrove in grado di accoglierla e di farla esprimere: ad Amsterdam e poi a New York con il tedesco Ulay, compagno di vita e di arte finché non arriva il momento in cui “tutto finisce come è iniziato” (custodito nell’ultima performance insieme, nell’incontro che li separa a metà strada della Grande Muraglia Cinese).
“With eyes closed I see happiness”: perché la felicità viene dall’interno.
Marina, molto spesso, sceglie di esprimere il dolore nella propria arte perché tra tutte le comuni esperienze umane, la considera una delle forme più immediate di comunicazione.
Il metodo Abramovich
La ricerca brasiliana della Abramovic è iniziata negli anni ’80 durante la visita in una miniera di cristalli. Rimasta affascinata dalla forte energia che riceveva dalle pietre e minerali ha chiesto agli uomini che lavoravano lì sottoterra, la possibilità di essere lasciata sola a meditare per ritrovare la serenità e avere delle nuove idee creative. A contatto con il quarzo di Corinto nel Minas Gerais, Marina non solo ne avverte il forte potere purificativo, ma sente il desiderio di impiegarlo nel progetto a cui stava pensando e che diventerà il suo “healing experience sculpture”. La performer rievoca la forza guaritrice dei cristalli nell’isolamento che gli spettatori possono sperimentare per poche ore. Si crea così un legame con il presente, fatto di non parole, impossibile da stabilire durante la routine quotidiana, in cui veniamo “bombardati” dai continui input del mondo esterno. Giunta alla soglia dei 70 anni, la nostra protagonista, sente di “avere abbastanza esperienza e conoscenza” per insegnare alle giovani generazioni la consapevolezza della propria individualità. Grazie ad esercizi di meditazione che prevedono l’interazione con pietre e minerali è possibile prendersi una pausa dalla logorante vita di tutti i giorni ed avere un’esperienza in grado di incidere nel sentire profondo. Lo stimolo di realizzare una propria fondazione che sia al tempo stesso un luogo di ricerca artistica ed eredità della memoria personale le viene in mente durante i tre mesi della mostra tenutasi al MoMa di New York nel 2010 “The Artist is present”, da cui i registi Matthew Akers e Jeff Dupre hanno tratto l’omonimo documentario. Marina Abramovic è seduta per sette ore al giorno su una sedia e dedica il suo tempo a sé stessa e a chiunque gli si sieda davanti. Focalizzandosi sul momento presente la comunicazione è solamente visiva, in un continuo scambio di sguardi ed energie. È possibile arrivare a conoscere veramente l’altro senza parlare? Dalle reazioni ed emozioni sui volti degli spettatori sembra di sì: c’è chi si commuove, chi sorride, chi rimane impassibile o chi si mostra turbato. La sfida lanciata da Marina sul come sia difficile stare fermi “a non fare niente” è un rinnovarsi e ri-scoprirsi ogni volta davanti ad una persona diversa. La sua capacità di fare “tabula rasa” dell’esperienza appena terminata per riuscire a connettersi con un “nuovo specchio” è impressionante. La Abramovic ci spiega che per lei non esiste il tempo nel presente, nell’hic et nunc, perché riusciamo a quantificarlo solamente se messo in relazione con il passato, nel pensiero, o meglio nel ricordo individuale.
Nel suo centro a Hudson, NY “The centre for the preservation of performance Art” disegnato dall’architetto Koolhaas è possibile per gli artisti esibirsi nel teatro in performance di “almeno sei ore” e visitare l’area museo in cui vengono allestite mostre temporanee (sono state ospitate anche le creazioni artistiche di David Lynch).
Il titolo del film, nelle sale italiane solamente per tre giorni, “The Space in Between” può essere un richiamo alla volontà della protagonista di abbattere le barriere che separano l’artista dal pubblico. L’intenzione di “passare nello spazio in mezzo” che tanto ricorda lo stretto varco dell’Imponerabilia del ’77, quando insieme all’ex compagno-performer Ulay ergono i propri corpi a nude colonne portanti, concependo così un sottile spazio-porta da far oltrepassare al visitatore. Valicare i confini fisici per mezzo delle performance è tendere un filo invisibile tra realtà e finzione, tra arte intesa come creazione concreta o piece teatrale che non afferriamo. Per vedere il documentario girato da Marco del Fiol non serve conoscere l’Abramovic-Icona o le sue idee d’avanguardia (per molti discutibili) dagli albori artistici negli anni ’70 ai progetti più recenti. Basta essere curiosi e sarà la nostra reazione di spettatori, qualunque essa sia, ad immortalare l’essenza della performance su pellicola.
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