RomaFF11: The Birth of a Nation, le radici insanguinate dell’America

RomaFF11: The Birth of a Nation, le radici insanguinate dell’America

October 18, 2016 0 By Simone Tarditi

birth_of_a_nation-posterQuello che è uno dei film più controversi e chiacchierati di questo 2016 è arrivato anche all’undicesima Festa del Cinema di Roma. Nel 1831 a Southampton County (Virginia) Nat Turner è un afroamericano schiavo in grado di leggere e le sue capacità lo portano ben presto a fare da predicatore. Le condizioni terribili in cui versano i suoi simili lo spingono a prendere coscienza della necessità di una ribellione, guidato da un ideale di libertà.

Cronologicamente troppo vicino a film come Django Unchained e 12 Years a Slave e narrativamente troppo lontano dalla sfera del presente, Birth of a Nation vive di un paradosso tutto suo: è radicato nelle pagine più buie della Storia Americana e, al contempo, è attuale nella sua riproposizione di quelle tematiche d’intolleranza e di scontro razziale così diffuse ancora oggi nonostante il progresso della cosiddetta “civilizzazione”.

Birth of a Nation fa il verso all’omonimo film di D. W. Griffith del 1915 e, alla lunga e a ben vedere, è intriso di troppa propaganda “Black Power” per essere preso totalmente sul serio: la deportazione dall’Africa in America, i soprusi e le sopraffazioni di generazione in generazione rappresentano motivi di vergogna ancora oggi per quel che gli “Uomini Bianchi” son stati capaci di fare, ma allo stesso tempo c’è troppa retorica nel marcare unicamente aspetti di contrapposizione tra anglosassoni e afroamericani. Insomma, Le confessioni di Nat Turner, il romanzo di William Styron a cui il film s’ispira, è importante nel suo descrivere gli aspetti umani (spesso anche contradditori, com’è giusto che sia) all’interno della sua cornice storica, mentre Birth of a Nation sembra voler spesso perseguire un’idea unidirezionale, priva di sfumature.

leconfessionidinatturnerParte del mediatico rumore di fondo lo si deve allo stesso Nate Parker, produttore/regista e protagonista del film, che ha suscitato su di sé una serie di controversie per aver fatto il film, per le sue idee e per un’accusa di stupro, poi ritirata, ma prontamente riportata dai media di tutto il mondo per “fare notizia”. Va ricordato anche che ai tempi della sua pubblicazione, correva l’anno 1967 e vinse il Premio Pulitzer, Le confessioni di Nat Turner aveva suscitato scalpore per essere un libro scritto da un bianco e con protagonista uno schiavo nero ribelle. Son passati quasi cinquant’anni e, per quanto sia stato massiccio il riconoscimento dei diritti, l’America non sembra essere cambiata più di tanto, questo è vero, ma fare un film così rischia di diventare a sua volta una forma di razzismo per la radicalità negativa con cui viene presentato e ritratto ogni singolo personaggio bianco, quasi alla stregua della quasi totalità della filmografia di Spike Lee.

Tolto questo, il film non è affatto male. Il fatto di non costituire un unicum all’interno della cinematografia nordamericana lo priva di esclusività, ma non di un qualche valore artistico. Il problema di fondo, che il film evita di prendere in considerazione anche solo per un istante, non è che nel mondo ci siano dei buoni o dei cattivi, ma che potenzialmente siamo tutti lo schifo della Terra e sono la Storia e il nostro passato a ricordarcelo ogni singolo giorno, nessuno escluso.

Simone Tarditi