RomaFF11: Intervista al cast di Fritz Lang

RomaFF11: Intervista al cast di Fritz Lang

October 24, 2016 0 By Simone Tarditi

Vero Cinema ha avuto la possibilità di fare quattro chiacchiere con il regista Gordian Maugg e i due protagonisti, Heino Ferch e Samuel Finzi, del film Fritz Lang, presentato all’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma. È stata un’occasione per parlare non solo del loro ultimo lavoro, ma anche di vero cinema muto tedesco, serial killer, New Hollywood, immigrazione negli anni ’20, e molto altro. Insomma, una bella dose di cinefilia attorno ad un film per veri cinefili.

Fritz Lang era davvero una figura così controversa come viene mostrato nel vostro film?

Heino Ferch: Era una personalità molto forte, un regista molto duro con gli attori. Dalle voci di corridoio, le interviste, i ricordi delle star che lavorarono con lui all’epoca emerge il ritratto di una figura simile a quella di un dittatore, non un maleducato, ma una persona molto decisa nelle sue scelte. Per la maggior parte dei giovani attori questi sua attitudine era un problema, ma non per tutti: lo stesso Peter Lorre, protagonista di M – Il mostro di Düsseldorf, che era praticamente alla sua prima esperienza di fronte alla cinepresa, era così felice di prendere parte ad un film così importante che resistette allo stress di lavorare con un regista molto severo. Fritz Lang negli anni ‘20 era una star non solo in Germania, ma in tutta Europa, e sentiva di essere in bel pasticcio perché con l’arrivo dei talkies non sapeva cosa dirigere come primo film sonoro della sua carriera. Questa situazione gli creava della frustrazione e dell’ansia e aveva bisogno di sfogarsi conducendo una vita dissoluta, drogandosi e andando con le prostitute e tutto questo aveva fatto uscire i suoi lati peggiori. L’attenzione che era puntata su di lui era superiore a quella di tutti gli altri registi del cinema tedesco, che già stavano realizzando film sonori mentre lui rimase fermo circa un anno alla ricerca di una storia che lo interessasse davvero.

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Nel film viene posto l’interrogativo se Fritz Lang fosse anche lui un omicida e non volesse semplicemente studiare da vicino il serial killer che stava terrorizzando Düsseldorf. Cosa ci puoi dire di più?

Heino Ferch: Io credo che Fritz Lang abbia veramente sparato e ucciso la sua fidanzata, Lisa, circa dieci anni prima di lavorare a M – Il mostro di Düsseldorf, e che la sua fama abbia fatto sì che la polizia sbrigasse in fretta le indagini, considerando che non c’erano testimoni, stabilendo che lei si era suicidata. Io sono dell’idea che l’abbia uccisa lui e quando anni dopo lesse sui giornali della notizia di questi orrendi omicidi nella zona di Düsseldorf, che si trova a poche ore da Berlino, lì si recò immediatamente. Lui non voleva tanto addentrarsi nelle mente dell’assassino, quanto piuttosto guardare nella sua. Voleva trovare delle risposte su se stesso, non sull’omicida. Perciò subito dopo aver letto gli strilloni dei giornali, prese il primo treno e si recò lì. I produttori del film non erano così felici della sua scelta e imposero poco tempo per le riprese, ma lui era focalizzato nel cercare delle risposte perché erano dieci anni che combatteva coi propri demoni per quello che aveva fatto. Aver scelto Peter Lorre per interpretare l’assassino fu una decisione vincente perché lo spettatore si trova a provare delle sensazione contrastanti nei suoi confronti: c’è empatia, c’è quasi lo stimolo a prendersi cura di lui. Fritz Lang voleva che il pubblico provasse tristezza nei confronti di un omicida perché lui a sua volta ne era uno.

Samuel, cosa ha significato per te interpretare il ruolo dell’omicida, realmente esistito, Peter Kürten?

Samuel Finzi: Geneticamente è insito in ognuno di noi l’istinto ad uccidere, è qualcosa che fa parte del nostro DNA anche se non vogliamo ammetterlo e anche se non commetteremmo mai un omicidio in tutta la nostra vita. Per interpretare un ruolo così, l’unica cosa da fare è immaginare di essere un assassino, scivolare in quella che può essere la sua psiche. Al di là di tutto questo c’è la produzione del film, le situazioni che si creano sul set, i dialoghi della sceneggiatura, ma in cima a tutto questo c’è la gigantesca prova di Peter Lorre, e guardandolo puoi vedere fino a che punto spingerti con la tecnica recitativa. La parte più difficile da modulare è stata per me quella relativa al fine ultimo di Fritz Lang, cioè quello di fare un film che raccontasse la creazione di un capolavoro, e quindi mi son trovato a riflettere su cosa stesse pensando il regista mentre scriveva il film e lavorava al personaggio di Peter Kürten.

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Non solo Fritz Lang, ma anche Peter Lorre emigrò negli Stati Uniti durante gli anni ’30 per continuare a fare cinema lontano dal regime nazista. Cosa ne pensi della sua carriera hollywoodiana?

Samuel Finzi: Peter Lorre ha fatto dei grandi film anche a Hollywood ed è stato un abile speaker alla radio. Poi ha iniziato a bere molto, ha avuto difficoltà a trovare lavoro anche lui, ma ha continuato a recitare anche in piccoli ruoli fino alla fine della sua vita.

Quando sei a casa e vuoi vederti un film, di solito cosa scegli?

Samuel Finzi: Nella maggior parte dei casi, scavo nel passato e scelgo un vecchio film. Adoro i film muti. Se rimaniamo nel cinema statunitense, il mio periodo preferito è quello della New Hollywood, negli anni ’60 e ’70 sono stati girati dei film spettacolari, tutto quello che gli americani hanno fatto dopo non è stato altrettanto bello. Ovviamente, mi piacciono molto anche i film che Fritz Lang ha fatto negli anni ’40 a Hollywood: agli americani ha insegnato come fare cinema, ha veramente cambiato le regole del gioco per quanto riguarda il montaggio e i ritmi narrativi.

Fritz Lang è famoso per essere stato un regista molto meticoloso, che investiva molto tempo nella pre-produzione, nella costruzione di set, attento ai minimi dettagli. Come lavora invece Gordian Maugg?

Samuel Finzi: Lavorare con Gordian è stato molto rassicurante perché conosceva bene il materiale che aveva tra le mani. Un attore non sa mai cosa voglia esattamente un regista da lui, ma deve totalmente fidarsi su come viene diretto, su quali consigli gli vengono dati e Gordian, nel fare questo, è stato bravissimo.

Heino Ferch: Innanzitutto è un dizionario vivente. Se gli fai delle domande su qualsiasi cosa, ricevi molte risposte. È una persona estremamente sensibile e ha una visione molto romantica della vita. La sua sceneggiatura di Fritz Lang è molto precisa su quel che il film dev’essere ed è stata seguita con grande precisione. L’unico momento d’improvvisazione è stato per la scena in cui il regista impazzisce in una stanza d’albergo quando beve e si droga perché non riesce a sopportare la pressione della situazione in cui lui stesso è andato a ficcarsi. È stato l’unico momento nella lavorazione del film in cui io mia sia permesso di dirgli la mia idea su cosa fare in quella scena, ci siamo confrontati, abbiamo utilizzato una steady-cam e abbiamo girato tutto di fila. È stato un pomeriggio di pura improvvisazione, ma per il resto del tempo abbiamo seguito fedelmente la sceneggiatura. Gordian sa cosa vuole ottenere alla fine, ma sa anche ascoltare gli attori, si può parlare con lui per uno scambio d’idee. Ha lavorato dieci anni a questa sceneggiatura quindi sapeva benissimo dove voler andare a parare con la storia.

Gordian, toglimi una curiosità. Ho notato un’estrema somiglianza tra l’attore che interpreta Ernst Gennat, colui che investiga sui casi di omicidio, ed Emil Jannings, una delle più grandi star del cinema tedesco di quell’epoca. Si tratta di una mia deformazione cinefila o la tua è stata una scelta ragionata?

Gordian Maugg: [Ride] No, direi piuttosto che Emil Jannings assomigliava al vero Ernst Gennat, che pesava 185 chili, un omone che amava le torte e tutto ciò che fosse zuccherato, ma allo stesso tempo un brillante detective e ispettore di polizia. Lavorava a Berlino ed è stato uno dei primi ad usare tutto quell’insieme di tecniche d’indagine che vengono usate ancora oggi: dava l’ordine ai suoi sottoposti di non spostare o togliere gli oggetti sulle scene dei crimini e di non inquinare le prove. Era davvero bravo nel suo lavoro, la percentuale di casi che risolse si aggirava a circa il 94%, una cifra mai raggiunta da altri suoi colleghi.

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Nella celebre intervista di William Friedkin a Fritz Lang filmata nel 1974, il regista tedesco dice di aver voluto girare M – Il mostro di Düsseldorf a partire dalla scena finale che si vede nel film, quella che ritrae tre donne disperate per aver perso i propri figli. Parlando di te, qual è stato il momento in cui hai deciso di fare un film su Fritz Lang?

Gordian Maugg: Ho voluto fare un film su Fritz Lang fin da quando ero uno studente di cinema, dopo aver visto il suo Destiny del 1921 mi sono innamorato di lui perché era stato in grado d’inserire nel cinema della Repubblica di Weimar elementi provenienti dalla Pittura e dall’Architettura, che lui stesso aveva studiato e che si riflette anche nell’uso delle luci. Molti dei suoi colleghi dell’epoca provenivano per lo più dal teatro ed erano molto interessati ai dialoghi perciò detestavano i film muti, Fritz Lang invece concepiva il suo cinema come una forma d’arte e tutto ciò, da studente di cinema, ebbe su di me un profondo impatto.

Prima Heino ha detto che hai lavorato per dieci anni alla sceneggiatura del film, come si è evoluto il tuo film col tempo?

Gordian Maugg: La mia idea iniziale era di concentrarmi sul “periodo tedesco” di Fritz Lang, cioè tra 1918 e il 1932, ma presto mi è stato chiaro che non sarebbe stato il modo adatto per ritrarre una personalità così importante per il cinema e inoltre sarebbe sembrato troppo simile ad un documentario. Così ho deciso di prendere in esame un solo film, ma quale scegliere? Un film muto come Metropolis con grossi macchinari e masse di persone? Non mi pareva il caso. Così ho scelto M – Il mostro di Düsseldorf, che segna un punto fondamentale nella sua vita e nella sua carriera. Dopo quel film Fritz Lang ne fa ancora uno in Francia, Liliom, poi parte per gli Stati Uniti per fuggire dal Nazismo.

Molte personalità del cinema tedesco, per un motivo o per l’altro, emigrarono negli Stati Uniti tra gli anni ’20 e i ’30. Secondo voi, qual è stata la loro vera influenza nel cinema hollywoodiano?

Gordian Maugg: Quando arrivarono negli Stati Uniti si stanziarono stabilmente formando delle piccole città, vere e proprie comunità in cui rimase viva la loro identità e le loro tradizione. Purtroppo la maggior parte degli artisti tedeschi emigrati a Hollywood non ebbero un gran successo commerciale, quasi come se non potesse esistere per loro una connessione con il mercato statunitense. Fu quello che successe a F.W. Murnau, uno dei più grandi maestri della cinematografia mondiale. L’America aveva bisogno di quel modo di fare arte nel cinema, ma dall’altro lato era troppo legata all’idea di profitto. Ad un certo punto Hollywood si rende conto di avere bisogno di artisti, non di macchine calcolatrici. Fritz Lang riuscì con più successo a inserirsi nei meccanismi del mercato cinematografico americano, ma per chi venne dopo e di lui non fu sempre facile trovare una stabilità nel lavoro.

Heino Ferch: Molte delle menti europee più creative sono state costrette a lasciare il proprio paese a causa di circostante politiche e credo che abbiano davvero cambiato Hollywood. In America c’erano grosse produzioni cinematografiche, ma in qualche modo mancava dell’arte in tutto questo show business e insieme, questi due mondi così distanti, hanno saputo creare qualcosa di veramente unico. Si è trattato d’imparare a conoscersi gli uni con gli altri, i loro diversi modi di pensare e di fare cinema, al fine di lavorare come in un team in cui ognuno dà il suo contributo fondamentale per la riuscita del prodotto. Dev’essere stato incredibilmente duro per gli emigrati europei andare in un paese così distante e così diverso come l’America, con una lingua completamente differente. Bertolt Brecht provò a scrivere sceneggiature per Hollywood, ma non ebbe molto successo, solo per fare un esempio. Fritz Lang andò e rimase negli Stati Uniti perché in Germania volevano farlo diventare un regista asservito al regime nazista, obbligandolo a fare film di propaganda. In qualche modo, provarono tutti a sopravvivere, tutto qua.
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Da un punto di vista tecnico, com’è stato possibile realizzare il vostro film come se fosse realmente girato tra gli anni ’20 e ’30?

Gordian Maugg: Il lavoro sulla fotografia e la color correction è stato possibile con maggiore facilità rispetto a qualche decennio fa. Se vent’anni fa volevi fare un film e farlo sembrare molto vecchio dovevi graffiare e rovinare la pellicola con chiodi o altri oggetti mentre ora con la post-produzione si possono ottenere questi stupendi effetti con molta più semplicità e in minor tempo.

All’inizio del film c’è un momento chiave in cui Fritz Lang dice di detestare i film sonori, secondo te com’è cambiato il cinema tedesco nell’arco della transizione dal periodo del muto a quello dei cosiddetti talkies?

Gordian Maugg: Come ti dicevo prima, molti colleghi di Fritz Lang furono felice dell’arrivo del cinema sonoro perché finalmente potevano utilizzare liberamente i dialoghi che prima era relegati a brevi didascalie. Presto però finirono con l’usare il sonoro solo come un elemento registrato e incollato strato dopo strato sui film, non c’era l’idea di creare una sorta di “arte del suono”. Se tu guardi L’opera da tre soldi nella versione di G. W. Pabst è solo un gran chiasso, niente di più. Il sonoro è così rumoroso che non riesci a sentire una sola parola.

Gordian, cosa ne pensi del cinema tedesco di oggi?

Gordian Maugg: Nulla di minimamente paragonabile al cinema di quei tempi, ma la questione principale è sempre la stessa: registi che cercano di girare film che siano delle pietre miliari da un punto di vista artistico. Scrivi una storia, decidi dove posizionare la cinepresa, nulla di diverso da quello che faceva Fritz Lang ai suoi tempi, anche se ora sarebbe impossibile fare un film come I Nibelunghi.

(Intervista condotta da Simone Tarditi presso la Meeting Room dell’Auditorium Parco della Musica nell’ambito della Festa del Cinema di Roma in data 20/10/2016. Un ringraziamento speciale a Nicole Ringhut, produttrice del film, che ha reso possibile questo incontro) 

Simone Tarditi