RomaFF11: La Mujer Del Animal e la ferita della Colombia con Intervista al regista Víctor Gaviria e all’attrice protagonista Natalia Polo

RomaFF11: La Mujer Del Animal e la ferita della Colombia con Intervista al regista Víctor Gaviria e all’attrice protagonista Natalia Polo

November 17, 2016 0 By Elisabetta Da Tofori

In quarant’anni di attività cinematografica, Víctor Gaviria resta uno dei cineasti colombiani più noti e riconosciuti a livello internazionale; infatti, nel corso della sua lunga carriera ha ricevuto una duplice candidatura all’interno della Sezione Officiale del Festival di Cannes, rispettivamente nel 1990 con Rodrigo D: No Futuro  (Rodrigo D: Nessun Futuro) e con La Vendedora de Rosas (La Venditrice di Rose, 1998). Oggi a distanza di oltre dieci anni, torna a mostrare sugli schermi europei il volto nascosto della sua Colombia, all’interno della vetrina romana dell’XI Edizione dalla Festa del Cinema di Roma, con La Mujer del Animal – La Moglie dell’Animala.

La produzione filmica di Gaviria, come possiamo costatare, è molto esigua proprio per il grande lavoro di ricerca e d’investigazione adottato dal regista attorno alle storie e alle vicende da lui narrate rispetto alle tematiche di rilevanza sociale da lui trattate. Inoltre questo film, in particolar modo, ha faticato nel vedere la luce poiché non è stato semplice trovare una produzione disposta a produrre La Mujer del Animal, nessuno voleva compromettersi di fronte ad un simile argomento ritenendolo inadeguato e inappropriato; infatti, solo una donna come la produttrice Daniela Goggel poteva comprendere il vero e profondo significato di un argomento come la violenza sulle donne e con la quale si confrontava costantemente.

In questo caso, La Mujer del Animal è la vera storia ispirata alle reali vicende di una donna colombiana, di nome Margherita, nella quale il regista si è imbattuto casualmente durante la sua attività d’indagine all’interno della propria città natale, Medellin.

La protagonista Amparo (Natalia Polo) è una giovane che fuggita da un collegio religioso raggiunge la sorella nel capoluogo della regione di Antioquia; è qui che sarà presa di mira dalle attenzioni violente di un bruto conosciuto come l’Animale (Tito Alexander Gómez). È un viaggio attraverso la sofferenza, il dolore e l’incomprensione di una donna che ha subito violenze sia carnali sia psicologiche, dopo esser stata drogata, rapita, violata e tenuta schiava da un essere abominevole che l’ha privata della propria libertà e degli anni migliori della propria vita.
La vicenda si suddivide in differenti macro blocchi temporali della vita di Amparo che si susseguono, attraverso bruschi e impercettibili salti temporali che fastidiosamente disorientano in maniera non indifferente lo spettatore, comunicando la sensazione di una qualche mancanza.
Lo stile registico tipico di Víctor Gaviria rievoca molto intensamente il cinema neorealista italiano degli anni quaranta, non solo per questa sua forte necessità di adesione al reale ma anche per la decisione di utilizzare attori non professionisti, o come preferisce chiamarli Gaviria “attori naturali”. Anche le ambientazioni rispecchiano questa esigenza di verosimiglianza con la realtà, ricorrendo a location naturali già esistenti dove vengono, colloca attori a interpretare esperienze non distanti dal loro vissuto.

Infatti, Gaviria ha a cuore mostrare il vero volto della Colombia attraverso uno spaccato cittadino segnato dal degrado e della povertà che emerge prepotentemente dai quartieri popolari fatti di strade sterrate, di baracche di legno prive di qualsiasi genere di conforto come acqua, luce o gas.
Gaviria propone dei prodotti cinematografici che si avvicinano allo stile documentaristico, sul quale costruisce la propria narrazione di finzione, esaltando ne La Mujer del Animal quella natura primordiale violenta e carnale che spingono gli istinti umani.

Nella pièce cinematografica della Festa del Cinema di Roma, Vero Cinema ha avuto l’onore di confrontarsi con uno dei maggiori esponenti del cinema sudamericano che ha segnato la storia del cinema Colombiano dalla seconda metà del novecento fino ad oggi: Víctor Gaviria.

 

“La Mujer del Animal” è un film particolarmente brutale negli intenti, è una storia di violenza fisica e psicologica sulle donne. Perché ha sentito la necessità di trattare questo tema, molto attuale anche qui in Italia? Inoltre, il film narra una storia fittizia o s’ispira alla realtà?
Io iniziai il film quando parlai con una signora per un altro lavoro, durante un’intervista; allora mi disse: «Yo soy la mujer del animal (io sono la moglie dell’animale), mio marito era un delinquente, un folle, un violento». Sicché, io parlai con lei e mi raccontò: «Non mi cososci? Sono stata sette anni incatenata, fui rapita da un tipo violento, un animale e diventai la moglie dell’animale e non potevo scappare da questo, stetti sette anni prigioniera. L’uomo mi dette una droga», mi raccontò tutta la storia che è nel film.
Tutta la storia è reale, tutta; io tratto la realtà come viene narrata da coloro che l’hanno vissuta, con minime modifiche. Io voglio che la realtà di coloro che hanno vissuto tali avvenimento siano autentici, la vera storia di ciò che accadde. E la donna mi disse: «Non sai il dolore che fu vivere questa esperienza, unito al dolore che nessuno mi aiutò. Perché nessuno mi aiutò durante questi sette anni? Adesso io racconto a mia sorella, a mia cognata che non sono mai voluta stare con quest’uomo per mia volontà, che non l’ho mai voluto; loro non mi credono e mi dicono che sì che l’ho voluto perché nonostante questo ho avuto tre figli».
Renditi conto come questa trappola delle donne che cadono vittime della violenza degli uomini e non sono credute. Quando mostravo il copione mi rispondevano che questa verità non va vista, non può succedere qualcosa del genere; soprattutto gli uomini dicevano che era assurdo, che li disgustava che si parlasse di questo.
Mi compromisi perché lavorando tanto nei quartieri, trovavo molte storie di stupro, di donne che non potevano raccontare e della loro vita che si divideva in un prima e in un dopo; per i produttori a cui mi rivolgevo non significava niente quello che facevo mentre per una donna “era come bere un bicchiere d’acqua” (cioè comprendeva tale condizione di violenza di genere). Avevo molte storie e decisi di fare un film seriamente perché uno non fa un film tanto per fare qualcosa; è difficile fare un film che non abbia una motivazione, le tappe di costruzione del film sono complesse ed è molto difficile realizzarlo in Colombia. Per tale motivo ho lavorato a un film, dove mostriamo tutte queste donne che hanno vissuto queste situazioni, che nessuno ha ascoltato mentre adesso si sentino accompagnate da questa pellicola. «Andiamo a denunciare gli animali! Andiamo a segnalarli!»

 

Nel film, il ruolo della donna risulta passiva e sottomessa al volere degli uomini, in una società che appare praticamente maschilista. Cosa ne pensa al riguardo?
Io quando mostravo il copione, quello che mi dicevano tutti era: «No! No, non può essere! È donna troppo passiva perché questo non è possibile». Parlai con Margherita e le chiesi perché non fosse scappata e lei mi rispose: «Non lo so Víctor, però io stavo talmente male, mi sentivo come colpevole. Non avevo dove andare e in parte avevo paura di finire per strada». Infatti, le donne che scappavano dagli animali, va detto, erano prostitute e gli viene ricordato per tutta la vita. Lei mi disse: «No! Non potevo reagire!»
Io credo che questo sia frutto di ciò che la violenza provoca; quando subisci una violenza con un capo, con una persona nel luogo di lavoro o incluso con un amico che ti maltratta per qualche motivo, ciò produce una svalorizzazione di se stesso al punto tale che non sei capace di fare niente. Chi è maltrattato si sente una persona annullata.

 

Nel film ci sono alcuni riferimenti al mondo magico; quanto influisce questo elemento nella vita dei colombiani e in maniera particolare nella vita delle donne?
È incredibile come in questi quartieri popolari c’è una spiegazione del male che accade, della reiterazione della sfortuna e del caso. È come una riflessione attorno alla sfortuna che è frutto della povertà, certo, ed è il problema di come ci si pone di fronte ai problemi della vita; per questo tutto ciò è attribuito alla stregoneria. Tutti parlano di stregoneria. “Quella persona mi stregò!”; è una relazione molto strana basata su queste dicerie ed è una situazione che succede. Nel caso del film, non si tratta proprio di stregoneria, ma di Burundanga (o il “respiro del diavolo”, in Colombia si dice che “ti rubi l’anima”). È una sostanza molto utilizzata in Colombia, conosciuta anche con il nome di Scopolamina (esatto termine scientifico) che serve per derubare la gente facendole perdre la volontà.

Che programmi ha per la distribuzione e la presentazione festivaliera a livello internazionale de “La Mujer del Animal”?
Noi abbiamo l’idea che la pellicola sia universale, è una cosa che abbiamo sentito qui a Roma, con gli spettatori del Festival. Le poche persone che ci hanno detto “Questo è un tema universale” e non solo della Colombia o di Antioquia che è la regione di ambientazione del film. È un tema universale tanto che speriamo che anche in Colombia l’impatto sia fortissimo, perché il maschilismo è una forza che non si tratta quasi mai, come se fosse il problema peggiore come la guerriglia, il narcotraffico, la violenza, il potere di destra; invece il femminicidio e tutto questo maschilismo di cui non si parla quasi mai però è sempre un’eresia. Quello che noi realmente vogliamo è che la collettività reagisca a tutto ciò, che tutti sappiano che questa è una pratica abituale, un’appropriazione indebita della vita delle donne, privandole della propria libertà.

Nel film, ci sono dei tagli temporali di grande impatto narrativo, come mai una decisione così netta?
Sì, il film era molto lungo; abbiamo girato moltissime scene e alla fine decidemmo raccontare la storia solo all’interno del quartiere (della città capoluogo di Antioquia, Medellin). Anche se avevamo girammo pure al di fuori del quartiere, pareva un’altra storia, quella della città. Per questo le riprese si sono svolte interamente sulla montagna, questa era l’intenzione ed è ciò che ha reso “La Mujer del Animal” più intenso.

In Italia non abbiamo molte conoscenze sulla cinematografia colombiana, per tale motivo vorrei domandarle come si è evoluta dalla seconda metà del ‘900 a ora e in particolar modo durante il periodo della sua produzione filmica.
Io, iniziai in un momento in cui c’era un’impresa dello Stato chiamata FOCINE, Compañia de Fomento Cinematográfico; in quel caso c’erano dei concorsi e se lo vincevi ti davano l’intero budget per fare il film. Questo, con il neoliberalismo, certo, fece cadere il cinema in un limbo per quindici anni, fu un momento tremendo. Fino a quando nel 2003, una nuova generazione di cineasti modificò totalmente l’idea di cinema. A me propriamente non mi toccò particolarmente, perché io faccio cinema ora come prima, ma adesso la generazione di registi è possente e i registi del momento vanno da trenta a trentacinque anni. C’è una Legge del Cinema che promuove la rinascita delle iniziative attorno alla produzione filmica, dando vita ad una crescente attività cinematografica. Infatti, oggi si producono trentacinque, quaranta film all’anno, cosa che al mio tempo se ne facevano uno o due. Il cinema colombiano si è ampliato; ci sono sceneggiatori, direttori della fotografia, produttori che compongono una piccola industria e c’è un gruppo rappresentativo di registi molto importanti.

Dopo uno scambio di battute con il regista Víctor Gaviria ci siamo confortati con la debuttante Natalia Polo che in questo suo primo film si mette alla prova in un ruolo impegnativo e fortemente emotivo.

Per lei, Natalia, questa è la sua prima esperienza cinematografica come attrice. Com’è stato relazionarsi con il ruolo della giovane protagonista Amparo? E come si è trovata a essere diretta da un regista come Víctor Gaviria?
Bene, anche per me è stata una sorpresa perché è il mio primo film, non avevo mai pensato che mi potesse capitare qualcosa del genere, come essere attrice e soprattutto la protagonista di una storia che sta causando un’agitazione a livello mondiale impressionante. In Colombia e in America Latina si sta vivendo la violenza di genere.
Mi ha suscitato moltissima emozione perché mi sono trovata a lavorare con Víctor Gaviria, un regista che proviene da un percorso filmico che hanno causato un grande impatto nella società.
Víctor parte da avvenimenti reali per la realizzazione dei propri film, come tutte le storie che ha diretto; questo, infatti, è ciò che si vive nel mio paese. Quest’ultimo film “La Mujer del Animal”, è la storia di una donna che visse incatenata e privata della sua libertà per molti anni. Ciò fu per me uno shock, perché in qualsiasi momento della nostra vita, noi o persone a noi vicine abbiamo vissuto esperienze simili, non nella maniera più brutale come la visse Margherita; tuttavia abbiamo avuto una vicinanza con la violenza e l’abuso sulle donne, realtà che vediamo tutti i giorni attorno a noi.
Per tale motivo per me è un onore e un privilegio rappresentare tutte queste donne. È un privilegio tremendo perché sono queste voci che stanno lì in silenzio ed io in qualche modo le rappresento. Dunque è bello e al tempo stesso anche molto forte perché sono molte emozioni e tanta sofferenza contenuta che a volte non sappiamo come interpretarle dato che per me è la prima volta, e perché non hai esperienza. Però Víctor Gaviria è un grande regista, non so come descriverlo perché non si limita a dirigerti, lui ti insegna, ti corregge, ha pazienza, ha mille modi per dirti e darti la libertà quando reciti. Questa è la magia degli attori naturali e in altro modo che noi mescoliamo quello che noi abbiamo vissuto e apportiamo un poco di queste nostre esperienze alla storia: questo è quello che fa Víctor Gaviria.

Durante le riprese del film, avevate un copione su cui lavorare o avevate la libertà di improvvisare?
Sì, Víctor ci diede il copione e io lo lessi con attenzione; però poi quando fummo sul set, Víctor disse che non dovevamo imparare il copione completamente ma voleva che fossimo naturali dandoci la libertà di esprimerci ed essere creativi. Questa è la magia, come io dico, e così funziona per questo tipo di film perché apportiamo ciò che abbiamo e credo che Víctor dia questa liberà di improvvisare ai suoi protagonisti. Molte cose sono improvvisazione in modo particolare il personaggio di Amparo è un personaggio molto silenzioso, parla molto poco e si manifesta in tutta questa quantità di sentimenti e emozioni attraverso gli sguardi, i gesti e i movimenti del suo corpo; per questo credo che non c’era molto da imparare. Tuttavia, c’erano piccole parole che a Víctor piaceva che dicessi.

Quale fu il tuo primo impatto di fronte alla macchina da presa?
Con Víctor, una settimana prima delle riprese facemmo una prova in modo da entrare in contatto con l’ambiente, visto che eravamo in un quartiere molto forte; quando vi entri dento, tu senti un forte impatto dovuto a ciò che si sta vivendo là: un quartiere dove si vivono moltissime situazioni limitanti come l’alimentazione, non c’è acqua, non c’è luce, c’è il deterioramento delle case, sai è molto triste entrare in questo luogo.
Poi quando vi entrai fui molto emozionata, anche se quando iniziai a vedere tutti quei tipi di macchina da presa e le luci non ci volevo credere alla dimensione del progetto, considerando che era la mia prima volta che recitavo. Poi iniziarono le riprese delle scene belle, non avevano niente di violenza, di maltrattamenti; però quando iniziarono quei tipi di scene allora io mi dissi: “No! Io che sto facendo qui? Io non so se sarò capace di farlo.”
Avevo molto timore, però credo che quando decisi sul set di fare questo, mi proposi di farlo bene. Non era recitare tanto per recitare ma era una storia che doveva essere raccontata bene e credo che tutti gli attori abbiano fatto un lavoro di grande valore, perché siamo tutti attori naturali, eravamo come una famiglia e volevamo fare qualcosa di bello perché è una storia molto forte. D’altra parte sfruttiamo molto il fatto di sentirci attori però abbiamo sofferto con questa storia tutti i giorni perché non è una storia per divertirti ma a cui deve essere portato rispetto; è una storia che si confronta con la realtà che causa un altro tipo di sensibilità, di riflessione. Tutto questo viaggio nella recitazione dei partecipanti di questo film ti cambia e muta il tuo modo di vedere le cose, di pensare. Prima di questa esperienza io ero una persona normale e continuo a esserlo però con una coscienza più ampia di fronte alla violenza delle donne e a quello che viviamo nel nostro paese. Questo è quello che accade quando entri pesantemente nella vita di qualcuno.

Nel film c’è una bellissima e silenziosa presa di posizione del personaggio di Amparo, quella di tagliarsi i capelli, azione molto forte intesa come atto di ribellione alla sua condizione. Con “La Mujer del Animal” lei diventa la portavoce di un problema sempre più presente di cui sente parlare sempre più dai media. Che cosa pensa riguardo alla condizione della donna nel suo paese?
Credo che nel caso particolare di Margherita, l’azione di tagliarsi i capelli era come se fosse il suo punto debole. Margherita in confronto con l’Animale era una donna piccola, debole, sola e per questo molto vulnerabile di fronte all’Animale, un uomo forte, rude, temuto da tutti. Quando io lessi la parte del copione dove si tagliava i capelli mi provocò un forte impatto perché io come interprete di Margherita mi sono sentita in dovere di compiere questa azione. Poi quando fu il momento di girare questa scena per me fu molto duro perché per le donne è molto importante potersi sentire femminile, bella; tutte le donne hanno una bellezza particolare che le aiuta a sentirsi forti. Così io sentii quello che Margherita in un modo differente provò, lei lo trovò come un modo per liberarsi di qualcosa che non l’avrebbe più colpita, liberandomi anche io delle mie caratteristiche come donna. Fu come una combinazione tra quello che Margherita viveva e quello che stavo interpretando di lei; questo fu per me un momento molto emotivo.
Ora in Colombia, l’argomento della violenza sulle donne è una questione quotidiana; è incredibile vedere come muoiono, come sono picchiate. Tutti i giorni c’è una storia nuova! È molto triste vedere come nel mio paese si sta vivendo questo genere di cosa e pensare che siano poche voci che lo manifestano, donne che rischiano e prendano il coraggio di denunciare questi uomini “animali”. Ci sono moltissime donne che stanno in silenzio ed è triste vedere che vince in loro la paura di fronte a questo tipo di atti atroci.
Per me sarebbe meraviglioso se succedesse qualcosa per tutte quelle donne che stanno lì, soffrendo in silenzio, sottomesse, private della loro libertà e umiliate. Forse in questo momento si stanno facendo picchiare e vivono una moltitudine di cose tristi, perché ci sono uomini che impediscono la loro felicità; tutti abbiamo diritto di essere felici, di vivere e di approfittarne. È molto triste vedere ogni giorno questo tipo di situazione in Colombia e ciò che desidero è che presto tutto questo possa migliorare grazie alla speranza di avere una Colombia in pace.

Per terminare, le piacerebbe intraprendere una carriera attoriale?
Certamente! A me è sempre piaciuto, anche se all’inizio avevo molto timore, però credo che sarebbe meraviglioso con un altro tipo di storia perché il cinema è ampio come le sue storie e i molti punti di vista, con altro tipo di storia e altri di personaggi. È come il mutare di un camaleonte, che si trasforma in verde se entra in contatto con il verde, diventa rosso se si avvicina al rosso e questo è il lavoro degli attori: creiamo e trasformiamo e per tale motivo sarebbe, certamente, per me un piacere poter recitare in moltissimi altri film. Però solo il tempo potrà dire cosa succederà!

(Intervista condotta da Elisabetta Da Tofori presso la lounge stampa dell’Auditorium di Roma il 21 ottobre. La redazione ringrazia Daniela Staffa e relativo ufficio stampa per la disponibilità e la possibilità di realizzare questo incontro).

Elisabetta Da Tofori
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