TFF34: Sully e l’eroismo di Clint Eastwood

TFF34: Sully e l’eroismo di Clint Eastwood

December 4, 2016 0 By Simone Tarditi

Quella che sembra essere un’incoerenza di fondo è in realtà uno dei perni più importanti nella filmografia di Clint Eastwood regista: le contraddizioni dell’America. Archiviati il supporto obbligato, ma non taciuto, all’ormai Presidente Donald Trump e il distacco totale dal suo immediato predecessore Barack Obama, gli ultimi film di Eastwood sembrano voler ritrarre l’America in un irrisoluto conflitto interno tra patriottismo e denuncia.

Prendendo ad esempio la sua penultima opera in ordine cronologico, American Sniper, è quanto mai riduttivo arrivare a definirla una glorificazione a stelle e strisce fine a se stessa perché dietro l’impianto del film e dietro lo stesso personaggio di Chris Kyle (Bradley Cooper), eroe allo stesso tempo idiota e a sangue freddo, si nasconde in maniera chiara la netta posizione del regista contro la guerra (per un maggior approfondimento, ne abbiamo parlato l’anno scorso in un articolo completamente dedicato al film). Lo stesso discorso valga per J. Edgar, biopic tutt’altro che monumentale nel ritrarre il capo dell’FBI più famoso di sempre.

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Se attaccarsi ad inconcludenti critiche sulle apparenti ed evidenti simpatie politiche di Eastwood nel fare cinema è diventato per alcuni un motivo di incontro-scontro ad ogni nuova uscita cinematografica, francamente nulla può essere eccepito sulla sua capacità di dirigere ancora grandi film pienamente americani sia a livello produttivo sia per quanto riguarda lo sguardo sugli Stati Uniti e il ritratto che ne fornisce.

Sully è, in tal senso, l’ennesima conferma di quanto a Eastwood stia a cuore il suo paese, nonostante sia per lui impossibile non notare quanto siano dilaganti quei motivi che lo indeboliscono. La storia raccontata nel film è ormai diventata celebre: nel 2009, il comandante Chesley “Sully” Sullenberger (Tom Hanks) salva da un disastro certo tutto l’equipaggio dell’aereo di linea che sta pilotando, compiendo un ammaraggio miracoloso sul fiume Hudson. Centocinquantacinque persone sopravvivono e lui diventa un eroe nazionale, giusto? Sbagliato. Quello che al di fuori dell’America non è stato al centro dell’interesse dei media è che Sully finisce sotto processo perché secondo alcune teste grosse dell’aeronautica americana lui avrebbe potuto tranquillamente atterrare all’aeroporto LaGuardia appena resosi conto dell’avaria, invece che mettere in pericolo passeggeri ed equipaggio.

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Sully presenta oggettivamente un merito e un difetto: il fatto di essere il primo film girato (quasi) interamente in IMAX e la sua breve durata (novantasei minuti scarsi). Di grande impatto, ma nulla di eccessivamente clamoroso, sono sicuramente tutte le sequenze aeree vissute e rivissute dai protagonisti (contraltare paradossalmente buffo sono invece quelle riguardanti le simulazioni aeree su software con grafica da Play Station di fine anni ’90). Negli incubi notturni e in quelli a occhi aperti di Sully, tornano gli spettri dell’11 settembre con gli schianti aerei nel centro di New York, una glaciale rievocazione da brividi. Quello che però è il vero cuore pulsante del film, o almeno avrebbe forse dovuto esserlo, è il processo a Sully e al suo co-pilota (l’attore Aaron Eckhart, che invece che fungere da semplice “spalla” di Tom Hanks mette quest’ultimo in ombra in più di una situazione), ma è proprio qui che il film atterra subito dopo essere decollato: tutto finisce troppo in fretta.

Se nella filmografia di Eastwood è possibile scorgere omaggi e un velo di nostalgia per il cinema hollywoodiano degli anni ’40 e ’50, in Sully sarebbe stato lecito aspettarsi una più ampia sezione (riuscite a immaginare Il caso Paradine di Alfred Hitchcock oppure Anatomia di un’omicidio di Otto Preminger finire in quattro e quattr’otto? Certo che no) dedicata proprio all’indagine e al processo sul protagonista, in bilico tra l’eroe dipinto dai media e l’irresponsabile pilota che alla fine della sua carriera sembra aver perso la sua lucidità. Quest’ultima una critica che, invece, non può proprio essere sollevata a Clint Eastwood, di cui stiamo già aspettando un prossimo film, pieno di quelle contraddizioni americane che fa così bene a mostrare senza trarre conclusioni definitive perché è impossibile farlo.

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Simone Tarditi