Certain Women, quattro vite americane sospese tra il vuoto e l’attesa

Certain Women, quattro vite americane sospese tra il vuoto e l’attesa

December 27, 2016 0 By Simone Tarditi

Montana, USA. Un carro merci arriva da non si sa dove e attraversa città senza nome tra le montagne e le pianure americane. L’indistinguibile rumore dello sferragliare, del ferro che scorre su altro ferro, è accompagnato dal fischio del treno che si propaga nel silenzio e nel nulla. Attorno ad una cittadina dove regnano desolazione e grigiore, quattro vite di donne scorrono su binari paralleli, incontrandosi e snodandosi solo in rari momenti. I colori smorzati del paesaggio, immagini uscite direttamente dagli anni ’50 in Technicolor, e, poi, i titoli di testa di Certain Women informano che tra i produttori del film c’è anche il regista Todd Haynes (Carol, Far from Heaven) e tutto assume un senso di appartenenza nonostante siano passati forse due minuti e non sia successo ancora niente.

Quattro donne, quattro storie, quattro ritratti umani. Laura Wells (Laura Dern), in uno stato di apatia normalizzata, fa l’avvocato e conduce una relazione sentimentale con un uomo già sposato. Più che affetto, sembra essere solo sesso. Consumata una scopata frugale, i due non si guardano neanche in faccia, lui si riveste in fretta, tra sensi di colpa e svuotamento, mentre lei fissa dalla finestra quella città in cui non succede nulla. Il suo cane è l’unico essere in cui lei riesca a riversare un affetto sincero e un avvenimento legato alla sua professione sconvolgerà in superficie la sua esistenza.

Gina Lewis (Michelle Williams) è forse il personaggio dai contorni meno definiti, ma allo stesso tempo il più tormentato: vuole ottenere dell’arenaria, una pietra evidentemente molto difficile da trovare, per costruire un’abitazione e dietro questa mission che si è prefissata si nasconde la figura di una donna insicura, paranoica, fragile, ma allo stesso tempo con una grande tenacia e forza di volontà, in grado di dare un senso di stabilità per se stessa e per la sua famiglia.

Jamie (Lily Gladstone) lavora in un ranch di cavalli, a cui bada per l’inverno. La sua vita prosegue tra routine e noia fino a quando non conosce per caso Beth Travis (Kristen Stewart), una neo-laureata che lavora come insegnante per potersi pagare i debiti di studio in una città che dista quattro ore di macchina da casa sua. Due vite infelici, profondamente differenti eppure simili tra loro destinate ad avvicinarsi e poi allontanarsi di nuovo.

Il cinema della regista Kelly Reichardt fatto di tempi morti ed eterne attese, come nel film ambientalista-esistenziale Night Moves o nel suggestivo western Meek’s Cutoff, rifugge dai sempre più frenetici ritmi hollywoodiani e preferisce vivere slegato da quel mondo, ma non dall’America, dalla sua Storia e dalle sue storie. Con Certain Women sembra di trovarci di fronte un quadro di Edward Hopper, pittore omaggiato direttamente in alcune emblematiche inquadrature, o una manciata di racconti di Raymond Carver (le storie del film sono in realtà tratte da Maile Meloy, ma l’influenza carveriana è troppo grande per non essere notata o perché non costituisca comunque materiale narrativo a cui attingere).

L’America della Reichardt è una terra di confine, tra ineludibile spreco e smarrimento individuale e delle proprie radici. Beth è ricoperta di debiti, ma avanza pressoché tutto quello che ordina alla tavola calda, Laura sembra non trovare un senso né alla sua professione né alla sua esistenza eppure non fa nulla per cambiare veramente la sua situazione, cose che invece sembrano fare sia Jamie sia Gina, la prima fallendo e ritornando alla sua vita nel ranch e la seconda portando a termine ciò che ha iniziato senza però rendersi conto dei tradimenti del marito e del disprezzo che sua figlia sembra provare per lei.

C’è un momento registicamente altissimo in Certain Women ed è quello riguardante William Fuller (Jared Harris), operaio ferito sul lavoro e assistito da Laura, suo avvocato. Quando a questi viene definitivamente fatto capire che non può intentare una causa contro i suoi datori di lavoro perché nel contratto che ha firmato c’è una clausola che, di fatto, lava le loro mani da qualsiasi incidente avvenuto durante il turno, la cinepresa riprende William seduto immobile nell’ufficio mentre sullo sfondo si possono vedere degli alberi privi di foglie e violentemente mossi dal vento. Con un abile espediente, la Reichardt mostra lo sconvolgimento interiore dell’operaio, che finalmente capisce di non poter portare avanti un procedimento legale e che -senza troppi giri di parole- è stato fregato, utilizzando due poli opposti: la rigidezza (manifestazione esteriore) di William seduto sulla sedia, immobile come una delle piante sul davanzale o come il disegno su vetro cattedrale lì appoggiato, in netto contrasto con i rami che in secondo piano e dietro un vetro si muovono nervosamente avanti e indietro (manifestazione interiore). La docile accettazione della sua condizione è solo apparente ed è preludio di quella strage annunciata e tentata che lui stesso minaccia poco più avanti nel film.

Marcata è anche la componente zoologica che accompagna Certain Women, ogni occasione narrativa e filmica sembra essere buona per inserire elementi provenienti dal regno animale: i quadri e le numerose statuine di gufi, cani, pesci (questo potrebbe anche essere il tocco di Todd Haynes, che nei suoi film spesso ne dissemina), i cavalli del ranch, i cani di Jamie e Laura, la band musicale dei Catfish (lett. “pescegatto”), la quaglia con cui conversa Gina e le mosse da granchio che fa suo marito, i coyote che ululano nella notte, la moglie di William che ha quaranta gatti e così via. È come se il centro dell’attenzione, per qualche istante, si staccasse dalle storie umane per far risplendere anche quelle senza voce. Doloroso e necessario è invece il rimando della Reichardt al suo western Meek’s Cutoff: all’interno di un centro commerciale vengono sfruttati nativi americani per danze tradizionali solo per intrattenere un pubblico disinteressato. Le loro radici culturali sono state completamente estirpate, i loro luoghi distrutti per costruire centri di aggregazione umana in cui loro stessi vengono impiegati, le loro esistenze confinate di riserva in riserva. Ecco che cos’è diventata l’America del selvaggio West. Nel film è solo un attimo, ma è una ferita impossibile da cicatrizzare.

Uno sguardo al poster di Certain Women ci fornisce invece qualche risposta in più sugli intenti della regista: le figure della quattro donne sono delineate a matita e carboncino, esse sono immediatamente riconoscibili per i loro tratti somatici, ma sembra quasi un disegno preparatorio per un vero e proprio quadro irrealizzato. Allo stesso tempo, tutto ciò si accompagna al lasciar di loro solo quella essenzialità che le contraddistingue e che nel film ne determina le vicende. Un po’ come se fossero solo personaggi abbozzati, usciti da una penna, fluiti in un racconto di qualche pagina e poi illanguiditi nell’oblio della finzione narrativa. Esattamente come nella vita reale.

Simone Tarditi