Paterson, quando la poesia dilata lo sguardo sul mondo

Paterson, quando la poesia dilata lo sguardo sul mondo

January 10, 2017 0 By Mariangela Martelli

Paterson la nuova pellicola di Jim Jarmusch, nelle nostre sale in questi giorni, è stata presentata in concorso per la Palma d’oro allo scorso Festival di Cannes. Il titolo accomuna diversi aspetti presenti all’interno della storia: è sia il nome del protagonista interpretato da Adam Driver (Star Wars Ep.VII, Hungry Hearts e a breve anche nel nuovo di Martin Scorsese “Silence”) sia la cittadina in cui vive, nel New Jersey ma non solo.

 

Nella primissima inquadratura dall’alto, incipit costante che da il via alle giornate della settimana che si susseguono nella trama, vediamo il protagonista Paterson nell’attimo prima di svegliarsi, vicino alla moglie. Il sonno si interrompe senza bisogno di sveglia, con poche variazioni di minuti ogni mattina. Azioni lineari, calme, Paterson è un abitudinario: il protagonista antieroe, legato alla sua routine. Ma è nella ciclicità delle sue giornate che assiste a delle piccole novità che gli fanno osservare la realtà con occhi nuovi, da principiante: dalla scritta “Ohio Tip Blues” sul pacchetto di fiammiferi mentre fa colazione alla luce dell’alba che lentamente scende sui mattoncini dei palazzi mentre cammina per le strade della sua città omonima. Ogni variazione viene puntualmente annotata sul  taccuino che ha con sé, impressioni che mette nero su bianco un attimo prima di iniziare il turno di lavoro. Paterson guida l’autobus numero 23 della città di Paterson, il mondo esterno si riflette sui vetri, il vociare dei passeggeri gli “porta” dei racconti, aneddoti, storie. Lo spettatore entrà così, nel giro di pochi minuti, nella vita privata del protagonista, nel suo microsmo familiare e personale, nei suoi pensieri, ricordi, sensazioni, creando e stabilendo quel senso di empatia non così semplice o scontato. Tornato a casa, raddrizza il palo della cassetta delle lettere che trova sempre storto e sa che ad aspettarlo c’è sua moglie Laura (interpretata dall’attrice-cantante-musicista iraniana Golshifteh Farahani, conosciuta in Italia nella trasposizione cinematografica della graphic novel di Marjane Satrapi: “Pollo alle prugne”) e il loro bulldog inglese Marvin (un “personaggio” premiato a Cannes con la Palm Dog Award) che vediamo ritratto nei quadri in salotto e in alcune scene ironiche durante le passeggiate in notturna con il padrone (in cui assisteranno a degli incontri bizzarri, inclusa una performace rap alla lavanderia automatica!).
Laura è una giovane donna attiva e sempre piena di nuove idee “artistiche” che propone al marito: dall’avviare un commercio di cupcakes al diventare una cantante country passando per la sistemazione della casa. Sogni che non rimangono nell’astratto ma che cerca di realizzare, dandosi da fare imparando a suonare la chitarra, svegliandosi all’alba per cucinare dolci da vendere al mercato di beneficienza o dipingendo le pareti e le tende di casa, i vestiti che indossa (rigorosamente nel suo stile “black and white”!)

Il fare pratico della moglie si incontra con la visione poetica di lui: si ascoltano l’un l’altro.

Laura è la donna/musa amata (non solo da Petrarca) a cui Paterson si rivolge quando scrive d’amore e mentre le canta ciò che ha composto durante la pausa pranzo: nel packet-lunch che lei gli prepara notiamo che non manca mai una sua foto, accanto a qualche piccola attenzione: una cartolina di Dante, un fiore o un dolcetto.

Laura apprezza sinceramente ciò che di più bello Paterson riesce a creare con la scrittura, non solo lo “sprona da più di un anno” per fotocopiare il suo taccuino e farlo così conoscere e condividere con il resto del mondo (appuntamento da lui rinviato perché sa di scrivere per e del suo microcosmo, avere un possibile pubblico non lo interessa, così come l’acquisto di uno smartphone). Inoltre lei gli confesserà una domenica mattina, nell’impossibilità di ricomporre i frammenti di ciò che è stato scritto e “perduto”, il suo dispiacere per non aver imparato a memoria le poesie, di non essere riuscita a farle sue e celebrarle nei ricordi condivisi. Laura è la custode della poesia e della memoria: al risveglio, quando racconta i sogni fatti al marito, ci giunge l’eco di altre moglie e altri sogni: dalla Penelope nell’Odissea alla Molly Bloom joyciana. É in questo microcosmo domestico che Paterson trova la certezza del ritorno con tutte le piccole cose che sono lì ad attenderlo, a fine giornata.

 

Gli omaggi disseminati da Jarmusch

Non dimentichiamoci che Paterson è anche il titolo di una raccolta di poesie del poeta preferito del protagonista: William Carlos Williams anche lui originario di Paterson, New Jersey.

I numerosi rimandi del regista al mondo dell’arte non sono solamente affidati al significato dei nomi dei personaggi (che sembrano avere un legame particolare con i grandi del passato o che custodiscono il proprio destino, come nel caso di Paterson/Drive) ma soprattutto alle immagini: Jarmusch “strizza l’occhio” allo spettatore attento, capace di scorgere un “Infinite Jest” tra gli scaffali o uno scorcio “alla Hopper” svoltando l’angolo per strada. Non mancano riferimenti espliciti o impliciti alla poesia americana: Allen Ginsberg, Frank O’Hara, Stevens, Emily Dickinson, la scuola di New York e “la chicca” metacinematografica: “Island of lost souls” (del ‘32 di Erle C. Kenton) di cui vediamo qualche frammento mentre i coniugi Paterson si sono concessi una serata al cinema. Nella somiglianza di Laura con la protagonista del film che stanno guardando, sembra sia avvenuto uno “scambio” di posto/ruolo con la donna-pantera sullo schermo. E se vogliamo ricollegarci ad altre “due anime sulla propria isola” ecco che il tributo di Jarmusch ad un altro regista (Wes Anderson) non tarda ad arrivare: una mattina salgono sull’autobus numero 23 i due ragazzini (Kara Hayward e Jared Gilman protagonisti di Moonrise Kingdom del 2012) adesso cresciuti e nei panni di due studenti che conversano sull’anarchia. La ragazza racconta le gesta dell’anarchico toscano Gaetano Bresci che come tanti emigrati (per lo più italiani e irlandesi) di inizio secolo scorso, era operaio nell’industria tessile di Paterson. É in questo modo che la cittadina industriale ha visto negli scioperi da lui organizzati la nascita del movimento operaio negli U.S.A.

Una “doppia reverie poetica” tra realtà e finzione, citazioni da scovare e visioni oniriche di Laura, tutto questo viene fuso nei “doppi” a cui il nostro protagonista presterà attenzione durante la giornata. La duplicità di ciò a cui aspiriamo e di quello che di concreto realizziamo nella vita si concretizza nel “mezzo”: nella scelta di Paterson di essere sia autista che poeta. Ricordiamo il “doppio-ruolo-mestiere” anche del suo maestro per eccellenza: il poeta William Carlos Williams (citato più volte all’interno della pellicola) svolgeva infatti il lavoro principale di pediatra nella sua città natale. Come nel caso di un altro poeta citato, Wallace Stevens che lavorava nelle assicurazioni.

In Paterson, l’unicità del giorno (mai uguale a quello prima) si incontra con l’originalità (del regista e del protagonista). Jarmusch punta all’esistenzialismo nella quotidianità, all’armonia dei giorni che si susseguono e al naturale corso degli eventi nel tempo. Il regista ha fatto proprio il pensiero di William Carlos Williams: “No Ideas but in Things”, ovvero l’idea che tutte le cose siano parte di un tutto, nonostante la loro unicità. La struttuta stessa del film è come la poesia di WCW: il tempo sembra racchiuso in una scatola cinese, metafora della vita che il protagonista Paterson riesce a fermare nei versi che crea. La ripetizione, i frammenti e i segmenti che si colgono nelle variazioni dei gesti di tutti i giorni, nelle parole, nel silenzio ci dicono che anche se apparentemente sembra tutto fermo, ci sono delle sfumature che mutano, facendosi ora più brillanti ora più opache. Sono le inquadrature, nel film, che ci fanno percepire questi spostamenti di luce: rievocati nella poesia di una bambina, nel riverbero dell’aria dopo la pioggia, passando tra i raggi di sole della pausa pranzo o nella morbida luminosità tutta in divenire dell’aurora per declinare nel tono crepuscolare che si posa sulla città alla sera. Sono questi gli attimi in cui Paterson ritaglia ciò che accade, assimilando i minimi dettagli (insignificanti ai più) e avendo cura di riversarli su carta. In Paterson si osserva e si ascolta: nessun sentimento viene urlato (ad eccezione di una sera al bar da parte di un amante non corrisposto) e se è vero che il protagonista richiama l’immagine del megafono nella scritta sul pacchetto di fiammiferi, lo fa sussurrandolo alla pagina bianca: amplifica ciò che sente nell’essenzialità di poche parole, togliendo invece di aggiungere.

Jarmusch è un regista che sceglie l’unicità: mai mainstream, da sempre votato alla scena indie americana, conscio di poter contare solo su se stesso e sulle proprie intuizioni. Carattere e scelte molto spesso criticate, fin dall’inizio carriera, addirittura da un altro regista che ammira: Bertolucci (all’epoca si trovavano in Olanda per un tv show). Dalla filmografia di Jarmusch abbiamo “intuito” l’amore che prova non solo verso la settima arte ma anche per la letteratura, il Giappone e la musica, quest’ultima è stata impiegata in modo diverso rispetto ai suoi precedenti lavori in quanto per la prima volta ha utilizzato una colonna sonora di musica elettronica composta insieme a Jozefvan Wissem (con cui  ha collaborato per il film precedente “Only lovers left alive”).

Prospettive giustapposte

La scelta del regista di girare Paterson, risale a circa 25 anni fa durante una “gita” nella città di WCW (stesso motivo che ha spinto il giapponese a fine film) rimanendo affascinato dalla parte industriale che gli ha ricordato la visione utopica di Alexander Hamilton, a proposito delle nuove città nell’epoca di fondazione degli Stati Uniti. “Paterson” non è il poema di WCW preferito da Jarmusch (tutt’ora non lo ha compreso al 100%) ma è la metafora iniziale che lo ha colpito, riguardo la correlazione tra l’uomo e la città. Paterson è una realtà grezza, vibrante, un melting pot: durante i sopralluoghi, per la ricerca delle locations, effettuati con lo scenografo Mark Friedberg, si fermavano spesso ad osservare qualcosa, avvertendo in questo modo tutta la speranza e disperazione che c’è nello stesso tempo e che si plasma nelle immagini di chi litiga, chi porta fiori, chi dipinge pareti o di un edificio che crolla. Scene che Jarmusch ha voluto ricreare durante le riprese, giustapponendole. Ha anche osservato dall’autobus le persone che passeggiano, lo scorrere dell’esistenza da un diverso punto di vista, da un’angolazione, prospettiva a cui di solito non siamo abituati (essendo in alto rispetto al livello delle auto) e la cui l’atmofera “teatrale” non riusciamo a percepire del tutto perchè quando passeggiamo per strada non prestiamo la giusta attenzione agli altri.

 

Un certo lato zen

A Jarmusch, Adam Driver è piaciuto da quando lo ha visto nella piccola parte in “Inside llewyn Davis” (dei fratelli Coen). A primo impatto ha amato il suo viso e i suoi modi pieni di tranquillità, scoprendo poi essere anche un attore reattivo, presente sul set e con la volontà di rendere vero il personaggio interpretato: tutte qualità che traspaiono in Paterson. La disarmante bellezza e semplicità che sente nelle piccole cose di tutti i giorni può essere riassunta nel suo rituale del dopocena, di quando al bar, a birra finita, osserva il fondo del bicchiere e sa di essere contento: riuscendo così a svuotare la mente dai propri pensieri, in perfetta simmetria con una delle immagini finali in cui lo troviamo seduto sulla panchina. Ed è proprio davanti alle “grandi cascate del fiume Passaic” che avviene l’incontro con un giapponese dai diversi lati in comune con Paterson città/protagonista. Nel film vengono ritratti gli aspetti più minuti, marginali e meno eclatanti della quotidianità ma è la cura e delicata attenzione dello sguardo del poeta/pilota ad infonderci un certo calore. Le lancette girano senza fermarsi nell’orologio di quando è al volante, inseguendosi con i pensieri e ricordi dell’infanzia: di quando vedeva il mondo come una scatola di scarpe, composto da altezza, larghezza e profondità, poi crescendo ha scoperto la quarta dimensione: il tempo. C’è chi potrebbe definire questo film “lento” per “mancanza di ritmo” ma Paterson è una pellicola/mosaico che celebra il microcosmo, catturando i tasselli direttamente dalla vita: è nel canto della poesia che il nostro sguardo si posa sulle cose e le dilata, dando così un possibile nuovo significato alla routine. La realtà osservata è capace di evocare immagini che si sviluppano e “si fanno da sè” proiettandone la potenzialità oltre la banalità: nonostante la trama sia incentrata sull’occhio del protagonista, l’io narrante non si impone mai, preferendo “farsi da parte” e lasciare lo spazio a tutto ciò che ha intorno. Paterson è una cassa di risonanza che avvicina lo spettatore alle cose, rendendolo capace di avvertire tutta l’altezza che portano in sè, annullando così ogni distanza che separa la nostra esistenza con quello che normalmente accade.

“Quando uno fa, badate, fa una poesia non conta, come opera d’arte, quello che dice, conta quello che fa, con una intensità di percezione tale da farlo vivere in un intimo modo di sé per verificarne l’autenticità”. WCW

Mariangela Martelli