
Tess di Roman Polanski, i semi crudeli del destino
January 30, 2017Nel 1979 Roman Polanski realizza Tess: rendendo così vive le immagini descritte da Thomas Hardy nel suo romanzo Tess dei d’Urbervilles. Su grande schermo viene rievocata non solo tutta la forza del mito che si respira tra le pagine, ma anche il fato che danza silenzioso tra superstizioni e coincidenze, mentre gli antichi timori sono degli echi amplificati dai segnali della natura. Ogni frammento diventa archetipo e precipita in un Wessex senza tempo né spazio, in cui gli uomini hanno abbandonato i vecchi dei in favore di una società vittoriana che ergerà la giovane protagonista, colpevole di voler vivere secondo i propri sentimenti, a vittima sacrificale.
Alla ricerca delle proprie origini, meglio se nobili
La campagna del sud dell’Inghilterra di fine ‘800 è lo sfondo su cui si muovono i personaggi e in cui tutto ha inizio e fine. Incontriamo subito il parroco del paese di Marlott (appassionato di studi genealogici) che si rivolge al contadino Durbeyfield, incrociato per strada, con un “Sir John”. Sembrerebbe proprio lui l’ultimo discendente della famiglia nobile dei d’Urberville, risalente ai tempi di Guglielmo il Conquistatore. Il “nobiluomo” non esita a cogliere al volo la possibilità di riscattare l’attuale situazione di miseria e la sera stessa rivendica l’autenticità del proprio sangue esibendo ai compagni di bevute, un vecchio cucchiaino trovato nella dispensa di casa sul quale è impresso lo stemma di famiglia. Insieme alla moglie decide di mandare la figlia più grande, Tess, dai propri parenti “regali” e facendo perno sull’ingenuità, il bell’aspetto e gentilezza della ragazza sperano di “essere riconosciuti” e cambiare così il proprio status.
A Tess non sembra interessare molto la faccenda, ma ubbidisce al volere dei genitori e una volta “a palazzo” intuisce fin da subito il diverso stato delle cose: conosce suo “cugino” Alec (Leigh Lawson) un giovane uomo narcisista e dagli interessi “poco nobili” che tace sul titolo comprato dai suoi antenati, lasciando la verità nell’ombra (insieme alla genealogia d’illustri cavalieri che da secoli dorme sepolta in una cattedrale gotica). Tess, assunta da Alec per badare agli animali e svolgere lavori domestici, rifiuta le sue avances sempre più insistenti ma la tensione cresce e si intaglia nella scena sul calesse lanciato a tutta velocità dal lui mentre lo sfondo bucolico rimane fermo. Polanski, conscio della pericolosità della scena, ha voluto provarla personalmente prima degli attori, mettendosi lui stesso alla guida del mezzo.
Nel “sottotitolo” alla versione inglese, pubblicata a puntate su una rivista, Hardy ha scritto “Fedele rappresentazione di una donna pura”. Tess infatti, non aderisce ai codici morali vittoriani e risponde sempre alla sua natura: ciò che veramente conta per lei sono i sentimenti, ma è incapace di esprimerli e rimane così intrappolata nei meccanismi rigidi di una società ipocrita e moralmente ingiusta. “Tess a quel tempo della sua vita era come un vaso colmo d’emozioni non ancora imbevute dall’esperienza”. (Thomas Hardy, Tess dei d’Urberville, edizione Bur)
Purtroppo saranno le vicende decise da altri e da lei costretta a subire che la portranno ad abbandonare il personale microcosmo fatto di certezze e abitudini. Dopo ogni “svolta” della sua vita ci sarà un ritorno a casa, un viaggio circolare in cui niente sarà come prima. Con il suo essere se stessa Tess rappresenta il nuovo e il mutevole, in contrapposizione ad un passato che non esiste più: da una situazione di normalità in cui era saldamente ancorata è stata gettata nello straordinario (a cui da sola non sarebbe mai giunta). Sa riconosce i propri errori, come quando durante l’addio ad Alec ammette di essere stata “abbagliata” nel periodo trascorso da lui. A differenza della propria famiglia (che cerca di rivivere un passato perduto) Tess nel guardare in faccia il presente, diventa una figlia del proprio tempo (ma non riconosciuta dalla comunità). Lei è l’elemento “diverso” a cui i compaesani, i genitori e le compagne di lavoro non sono abituati e che scrutano con prudenza, mantenendo le dovute distanze nel timore che il loro “ordine” venga spezzato.
Nella scena durante la pausa dal lavoro nei campi è l’inquadratura laterale a mettere in risalto lo stato psicologico di esclusione alla quale Tess sembra condannata. In tutta la narrazione, Tess affronta il tema della libertà inteso come la volontà di esprimere se stessa diventando artefice della propria esistenza. Eppure ogni sentimento da lei provato trova sempre ostacolo nelle leggi sociali e morali della realtà in cui vive. Lo spietato contrasto è racchiuso nella scena in cui dialoga con il parroco, chiedendogli la concessione di seppellire suo figlio, prematuramente scomparso. Il religioso rifiuta, sentendosi gli occhi esterni puntati addosso, Tess allora vuol conoscere la verità: se “agli occhi di Dio” è valido il battesimo da lei impartito in extremis, riparando così “l’offesa” sociale di aver dato luce ad una creatura illegittima. Lei sa che può salvarsi da sola: non si piange addosso cadendo preda dell’autocommiserazione e vittimismo. Rinuncia al potere di dire no, sentendosi in obbligo morale verso i propri familiari ma in tutto questo cerca di reagire per sopravvivere, introducendo quell’elemento di rottura e novità in sé e all’interno del proprio villaggio. Lo spettatore non può non domandarsi se la protagonista sia vittima o regista della sua storia.
“Dietro alle spalle la processione silenziosa di alberi e colline prese a vivere in scene fantastiche, fuori dalla realtà e l’occasionale stormire del vento si trasformò nel sospiro di un’anima immensamente triste, ampio come l’universo nello spazio e storia nel tempo”.
Dopo la morte del suo “Dolore” segue una “rinascita” della giovane donna: la ciclicità della natura umana si fonde con il paesaggio, in perfetta armonia. Tess per la seconda volta lascia la propria casa e trova impiego in una fattoria. Sarà qui che conoscerà Angel Clare (Peter Firth) figlio di un parroco protestante e che sembra “emergere dal passato”. Il comportamento del ragazzo ha un che di vago, come se meditasse sul proprio futuro: fuggito “dalla pazza folla” svolge un tirocinio per acquisire la pratica delle tecniche agricole necessarie per rendersi indipendente e realizzare il sogno di aprire un’azienda agraria in Brasile. Tess e Angel conoscono presto l’amore ricambiato e insieme condividono una breve felicità, immersi in un’Arcadia perduta. “Con l’esperienza, la bellezza per lei non stava nelle cose ma in ciò che simboleggiavano”.
Tess, ripensa al passato e ha paura di contaminare ciò che di puro ha creato con Angel: vorrebbe rivelargli “le proprie colpe” per liberarsene una volta per tutte. Ma nel timore di perderlo non fa che accennare agli accaduti che l’hanno segnata, in modo vago e ambiguo, allontanandondose per intricare maggiormente la matassa delle allusioni dette al momento sbagliato. Il destino si prende ancora gioco dei personaggi: il contenuto della lettera scritta da Tess e che Angel avrebbe dovuto conoscere prima del loro matrimonio, rimane ironicamente nascosta per una tragica “svista”. La verità sarà svelata troppo tardi e nel paradosso sarà la sincerità della ragazza a spezzare per sempre la possibilità di una vita felice: il passato la tiene ancora prigioniera. L’autocontrollo di Angel mentre ascolta la confessione della moglie pare irreale: il suo sentirsi “tagliato fuori” viene colto, come accaduto prima per Tess, dall’inquadratura che non lo mette a fuoco, confermando che la distanza non ha bisogno di parole: la delusione è intuibile nel silenzio tra i due. “Tutti gli oggetti intorno esprimevano con terribile monotonia la loro mancanza di responsabilità. Eppure nulla era cambiato da un attimo prima, nulla nella sostanza delle cose. Era mutata la loro essenza”.
L’uomo sente che la menzogna ha spezzato il legame spirituale che li univa e ricordando la nobile “discendenza” di Tess, sente di disprezzarla ancora di più: la considerava “una figlia della natura appena germogliata, invece era la pianticella tardiva di una logora aristocrazia”. Gli riesce difficile credere “come quegli occhi sempre in armonia con le parole, guardassero un altro mondo, al di là del suo apparente”. Dopo la separazione, Tess ritorna al paese natio e tra una visita alla cripta di famiglia nella chiesa gotica e lo struggimento fisico del lavoro nei campi, le stagioni si susseguono e alimentano il bisogno sempre crescente di aiutare i propri cari e di espiare le proprie colpe. Tess sceglie il passato: la condanna che l’ha predestinata a non essere felice (sebbene non sia “attratta dall’infelicità”, come poi le verrà rinfacciato). La protagonista cancella i propri fantasmi in un gesto estremo, ma noi non assistiamo alla scena: intuiamo il “come” dalla soggettiva della cameriera al piano terra, puntata su una macchia che si allarga sul soffitto. Tra mezze verità taciute e cattivi auspici, guardiamo e siamo guardati: separati dall’interno o dall’esterno da una finestra o una porta socchiusa.
La tecnica allusiva presente in Hardy e in Polanski ci fa avvertire i segnali dell’inevitabile sorte che attende Tess, senza mai averne alcuna certezza: è ciò che non vediamo (o udiamo) che stratifica in noi equivoci ed incomprensioni. Un chiaro esempio si ha nella “costruzione” della scena visionaria del bosco nel finale della prima parte, in cui Alec e Tess sono inghiottiti dalla nebbia, elemento che enfatizza il dramma consumato e che semina il dubbio in chi osserva dall’esterno. La messa in scena dello stupro (topos nella filmografia del regista polacco: da Repulsion a Chinatown, passando per Rosemary’s baby e La morte e la fanciulla) è stato intepretato da molti come un’espiazione di Polanski a seguito dell’accusa e arresto nel 1977 per aver avuto un rapporto sessuale con una tredicenne. Una situazione dai contorni confusi e infamanti per un uomo che ha visto le donne della sua vita (la madre e la moglie) vittime di aggressori.
Sharon Tate, la moglie di Polanski, sentiva un’affinità con la protagonista Tess, in cui si rispecchiava sia per le vicende subite quando era diciassettenne, sia per la forza che ha saputo trovare in se stessa per rialzarsi e andare avanti verso il futuro. Nell’incipit del film, accanto al corteo di ragazze, troviamo la dedica del regista a Sharon: un omaggio alla donna amata che leggendo il romanzo di Hardy lo aveva suggerito al marito per un possibile riadattamento cinematografico. Purtroppo per Polanski sarà un modo per esorcizzare la tragedia personale tristemente nota piombatagli addosso nell’Agosto del ‘69: la strage compiuta dagli adepti di Charles Manson nella quale fu barbaramente uccisa Sharon Tate, incinta.
A distanza di dieci anni, il ricordo si intreccia alla finzione del libro e scandisce l’attenzione del regista in ogni cosa: partendo dai fili d’erba sui quali le ragazze vestite di bianco danzano nel prato all’ora del crepuscolo, ai gesti ed espressioni degli attori, passando attraverso i dettagli dei costumi e della scenografia. Con amorevole cura per il dettaglio e perfezione Polanski controlla e crea qualcosa di bello dalla propria memoria senza fornire risposte riguardo al destino che aleggia tra le vite dei personaggi: il giudizio sulle azioni intraprese come conseguenza del libero arbitrio rimane sospeso perchè forse è già tutto scritto. Polanski, nel desiderio di far rivivere la donna con cui è stato felice e dare una forma concreta all’eroina da lei amata, trova in Nastassja Kinski la bellezza, grazia e passione che cercava. La giovane attrice (figlia dell’attore Klaus Kinski) e il regista si erano conosciuti un paio d’anni prima, lavorando insieme in una sessione fotografia per Vogue. Rimasto affascinato dalla solitudine e riservatezza della ragazza la vuole come protagonista e la manda sei mesi nel Dorset (con la madre) per prendere l’accento del luogo e imparare il lavoro agricolo affinché possa interpretare al meglio il ruolo, mantendendosi il più reale e fedele possibile a quello del romanzo.
La Kinski dona al film un’aurea di calore: qualcosa di diverso rispetto ai precedenti lavori del regista contrassegnati dall’ironia e dal senso del grottesco. Se prima il cinema di Polanski risentiva degli influssi dell’arte surrealista e del teatro dell’assurdo è adesso con Tess che vengono messi da parte per lasciar emerge tutta l’umanità riflessa nella purezza dei sentimenti della giovane protagonista. Il mondo attorno al regista è diventato irreale quindi sente di tornare alla semplicità e all’essenza delle relazioni con gli altri: in Tess c’è essenzialità e realismo, amore per la verità, tradimento, vergona, intolleranza, crudeltà. Secondo Polanski, le persone non vanno al cinema per vedere una “bella collezione di fotografie” ma per trovare l’emozione: l’aspetto principale e veramente importante in ogni arte consiste nella capacità di smuovere chi la osserva. Sono le reazioni dei personaggi agli eventi universali che rendono la storia interessante ed in grado di coinvolgere lo spettatore, rendendolo partecipe a livello profondo.
Tess segna un punto di svolta nella carriera del regista e nella sua biografia: nella dedica a Sharon c’è la consapevolezza di segnare un cambiamento con ciò che è stato, non un addio al cinema (come alcuni sostenevano all’epoca), ma un nuovo inizio. È vero che al tempo della realizzazione di Tess, Polanski si definiva un “ex-cineasta”, ma non ha mai abbandonato il suo lavoro: ha portato avanti sia la carriera teatrale (recitando nei panni di Mozart o dirigendo opere liriche) sia quella cinematografica. Le atmosfere in Macbeth del ‘71 e Chinatown del ‘74 sembrano aver assorbito l’oscurità del periodo post-dramma ma adesso il regista è pronto per una nuova fase.
Vedere i colori
La tavolozza del film attinge le proprie gradazioni dagli stati d’animo dei protagonisti: si spazia dal bianco delle vestiti nella scena coreografica iniziale, al verde degli alberi e dei prati che richiama alla vita e alla purezza della natura, mentre le tinte più opache e grigie contornano le scene aspre che seguono l’abbandono e la disillusione. Ma è il rosso, il colore su cui si indugia maggiormentee: rosse sono le labbra di Tess quando accetta la fragola che il “cugino” le offre, delle rose e del vestito indossato nelle scene finali. Eros e Thanatos, bellezza e tragedia vengono evocati attraverso il paesaggio che si tinge dei sentimenti di Tess: il realismo della vita nei campi, la luce del crepuscolo o dell’alba e le scene idilliache incorniciano l’immagine in un tempo legato al mito e che riportano alla mente i dipinti di Everett Millais, Jean Francois Millet e di Camille Corot. In tutto ciò la Kinski si muove a suo agio, come una giovane aristocratica ritratta nel diciottesimo secolo (nonostante vesti abiti umili e lavori duramente nei campi).
“Dopo il tramonto, solo allora, fuori dai boschi, le sembrava d’esser meno sola; sapeva come cogliere con precisione quell’attimo della sera, quando la luce e l’oscurità si compensavano così equamente che le certezze del giorno e i dubbi della notte si neutralizzavano, lasciando un’assoluta libertà mentale. É allora che il difficile impegno d’esser vivi si riduce al minimo. Non temeva le ombre, il suo unico pensiero sembrava quello di evitare l’umanità, o meglio, quella fredda concrescenza chiamata mondo”.
Sulla realizzazione della pellicola
Il Wessex di Hardy viene “spostato” nelle location della Normandia e Britannia: i villaggi attorno a Cherbourg si trasformano nei rustici borghi inglesi di Marlott, luogo d’origine di Tess e di John Brownjohn: esperto in competenze regionali ottocentesche a cui Polanski si è rivolto per arricchire la sceneggiatura (scritta insieme a Gérard Brach) con modi di dire e usanze dell’epoca. La fedeltà al romanzo di Hardy è notevole ad eccezione della totale eliminazione del capitolo incentrato sulla conversione di Alec, in quanto non ritenuto fondamentale. Le riprese sono procedute a rilento perchè durante quei nove mesi si sono alternate pause di ogni genere: causate dalle condizioni climatiche (come la pioggia del primo giorno in cui dovevano girare la scena nella serra che venne dipinta di bianco per l’occasione), dagli scioperi degli studi cinematografici e dalla morte improvvisa del direttore della fotografia: Geoffrey Unsworth (2001 odissea nello spazio) poi sostituito da Ghislain Cloquet (Au hasard Balthazar).
Le lunghe attese in cui entrambi hanno pazientemente catturato la luce “dell’ora d’oro” sono state ricompensate con l’Oscar per la migliore fotografia (gli altri due premi Oscar sono stati assegnati rispettivamente ai costumi e alla scenografia). È con Tess la prima volta nella filmografia del regista in cui i pareri positivi hanno unito pubblico e critica. Polanski ricorda anche lo stato di totale paranoia in cui si trovava durante la fase di montaggio, curato personalmente nell’appartamento (pieno di sintetizzatori e macchinari) del suo amico Philippe Sarde: compositore della colonna sonora “ridotta all’essenziale” che ha lasciato maggiore spazio al silenzio, alla natura e ai rumori delle trebbiatrici.
“Quel sublime entusiasmo aveva il potere di trasfigurare quel viso che era stato la sua rovina e che si mostrava d’una incontaminata bellezza con un leggero tocco di dignità, quasi regale”
Nella storia di Tess non c’è espiazione delle colpe commesse, anche se subite. Il destino e il passato legano la protagonista agli eventi che la imprigionano in una stasi apparente, rendendole impossibile vivere secondo le proprie leggi. Tess riesce comunque a mantenere una nobiltà d’animo spontanea, pazienza e coraggio quando tutto intorno diventa menzogna, arrivismo e individia. Nonostante i suoi avi non possano riscattarla dalla società puritana che la emargina, Tess mantiene la sua tenacia con straziante umiltà, connettendosi al ritmo della propria natura. Sia nel libro che nel film, la trama non cade mai nel clichè melodrammatico e per merito di una sceneggiatura “flessibile” Polanski lascia agli attori tutto il tempo necessario per calarsi nell’interpretazione, dandogli magari il “giusto imprinting”.
É tra i monoliti di Stonehenge (la scena fu girata in realtà vicino Parigi) che Tess dovrà fare i conti con la propria esistenza, rigenerandosi attaverso una catarsi. Non possiamo che provare compassione per questa donna vinta dal destino che sceglie di sacrificarsi, riconoscendo la propria responsabilità. Angel la osserva dormire serena sul “giaciglio” di nuda pietra: “lasciatela riposare ancora un po’” dirà a chi è venuto a prenderla. Adesso il passato non esiste più ma è stato cancellato a caro prezzo. Colpisce la calma e dignità di Tess al suo risveglio: consapevole che non sarà mai possibile cambiare le cose, le accetta per come sono. Non scappa più perché è pronta ad affrontare ciò che l’attende. Nella necessità di purificarsi dal gesto che l’ha macchiata, il fato continua a guidarla mentre la figura di spalle si allontana per scomparire nell’orizzonte dell’alba. È nella Natura che Tess trova il principio e fine del proprio destino: una “pennellata alla Turner” in tono minore, tra tensione e immobilità, incornicia un campo lungo con l’annuncio del triste epilogo in didascalia.
“L’amore porta in sé il seme della tragedia” (Roman Polanski)
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