
Indignation, il primo amore non si scorda mai (finché c’è vita)
January 31, 2017Newark, 1951. Per sfuggire ad un destino lavorativo all’interno della macelleria kosher della famiglia e alle ansie che il padre riversa nei suoi confronti, Marcus Messner (Logan Lerman, Fury) decide di proseguire i suoi studi al Winesburg College in Ohio. Qui conosce Olivia Hutton (Sarah Gadon, 11.22.63), una ragazza con un passato tormentato, a cui propone ben presto di uscire. Da quel momento in avanti, le reciproche vite prendono una piega inaspettata.
IN SUPERFICIE
Il panoramico campus di Winesburg, con i suoi alberi alti e ben proporzionati (in seguito una ragazza mi avrebbe spiegato che erano olmi) e i pittoreschi cortili quadrati di mattini coperti d’edera posti strategicamente in cima a una collina, avrebbe potuto fare da scenografia a uno di quei musical in Technicolor ambientati in un qualche college in cui tutti gli studenti se ne vanno a zonzo cantando e ballando invece che studiare.
(Philip Roth, Indignazione, Torino, Einaudi, 2009, pp. 14-15)
Senza doverci girare troppo attorno e andando invece ad evidenziare nel dettaglio gli eventi narrati, Indignation è attualmente il miglior adattamento cinematografico di un romanzo di Philip Roth. Il più onesto, il più curato, il più efficace. Questo non vuol dire che i realizzatori abbiano seguito pedissequamente, riga per riga, la struttura del libro o che non abbiano operato lievi modifiche rispetto al testo, tra poco lo si vedrà, ma la carta vincente di Indignation è stata la fedeltà verso ciò che Roth ha voluto raccontare: la storia di uno studente la cui vita procede verso un baratro e che si completa in una tragedia.
Come da tradizione, tra romanzo (Indignazione) e film (Indignation) intercorrono delle differenze, dal colore dei capelli di Olivia (da scuri a biondi) al quello dell’automobile (da nera a rossa) su cui si compie il primo ed ultimo (parziale) rapporto di natura sessuale tra i due protagonisti, piccole licenze registiche legate soprattutto al look e alla fotografia del film. Le modificazioni più sostanziali riguardano invece l’impianto della storia e la ricollocazione del colpo di scena principale, che Roth coscientemente “spoilera” nella prima parte del libro e che invece il regista James Schamus conserva per il finale della pellicola, depistando le tracce con una lodevole abilità già nell’incipit del film.
Mentre il romanzo è una grande riflessione sul tempo vissuto, sui ricordi, il film è un delicato sguardo su un’epoca passata, vicina eppure distante. I due lavori non si distanziano, ma si completano perché Roth conosce perfettamente i temi che tratta e Schamus sembra conoscere altrettanto bene Roth.
SUL FONDO
In quanto non credente, presumevo che nell’aldilà non esistesse orologio, corpo, cervello, anima, dio, ma solo un’assoluta decomposizione, senza forma, contorno o sostanza. Non sapevo che non solo l’aldilà non era privo di ricordi, ma che i ricordi sarebbero stati tutto. Non ho neppure idea se il mio ricordare si trascini da tre ore o da milioni di anni. Qui non è la memoria che cade nell’oblio, ma il tempo. E non c’è tregua, perché la vita ultraterrena è anche priva di sonno. A meno che sia tutto sonno, e il sogno di un passato per sempre perduto tenga per sempre compagnia al defunto. Ma sogno o non sogno, qui non c’è altro a cui pensare se non la vita trascorsa.
(Philip Roth, Indignazione, Torino, Einaudi, 2009, pp. 36-37)
Nel leggere queste righe di Roth, sembra quasi di trovarsi in Zero K (Einaudi, 2016), ultimo romanzo di Don DeLillo, altro gigante della Letteratura Americana. Nell’intermezzo narrativo interamente dedicato ad Artis Martineau si assiste alla frammentazione dei suoi pensieri durante la criogenesi e all’oltre che la sta aspettando. Non c’è quasi più traccia di lei, tutto quello che rimane sono le sue parole. Lei diventa parole. Gli organi, lo scheletro, l’involucro di carne e pelle costituiscono un guscio abbandonato, ma non è la fine. Tutto è stato compartimentalizzato. Le parole e le frasi compiono spirali che si riavvolgono su se stesse. Le certezze s’involvono in interrogativi. L’hic et nunc sono tutto e non sono niente. La voce è muta ed echeggia. Queste pagine di Zero K sono di una potenza destabilizzante, letteralmente indescrivibile.
In Indignazione, invece, è Marcus Messner a parlare, ma nel film il sonno amniotico nel quale la memoria sembra fluttuare e rimbalzare tra le pareti dei ricordi è anche quello di Olivia Hutton. Indignation si apre e si chiude con lei in due parentesi narrative non presenti nelle pagine di Roth: la sua giovinezza è sfiorita nel corso dei decenni e la lucidità ha lasciato la sua mente da tempo immemore. Olivia osserva uno sfocato particolare nella tappezzeria della casa di riposo in cui è ricoverata e sembra riportare alla luce il confuso ricordo di un giorno trascorso con Marcus, poco dopo che questi era stato operato d’urgenza per un’appendicite, e il film sposta il soggetto della narrazione proprio sul protagonista.
Nel film, questo soffermarsi sul personaggio di Olivia è significativo perché la protagonista femminile, nonostante il romanzo sia incentrato su Marcus, finisce col diventare importante tanto quanto lui. Come raccontato dal regista James Schamus nella lunga intervista pubblicata sulla rivista Cineaste (Autunno 2016, Vol. 41 Issue 4, pp. 14-19), durante la fase di ricerca e documentazione per Indignation si è scoperto che -poco prima di suicidarsi, nel febbraio del 1963- la poetessa Sylvia Plath aveva espresso nei suoi diari una profonda ammirazione per la bravura di Roth, il quale all’epoca aveva già pubblicato Goodbye, Columbus (1959) e Lasciar andare (1962). Il fatto che una così talentuosa scrittrice arrivi ad auspicare di riuscire un giorno a scrivere come Roth la dice lunga su quanto la genialità e il tormento possano costituire insieme un’arma a doppio taglio in grado di offuscare le proprie capacità. Schamus è rimasto così affascinato da questa intima nota biografica, una delle ultime da lei lasciate, che non ha resistito dall’arricchire il personaggio di Olivia con un’ulteriore sfumatura: la calligrafia che la protagonista usa nel film è modellata proprio su quella di Sylvia Plath, per non parlare di tutto l’insieme di elementi che accomuna le due giovani donne (l’una fuoriuscita da una penna, l’altra realmente esistita) come il desiderio di togliersi la vita.
Se su Olivia, quasi impercettibilmente, aleggia lo spettro di Sylvia Plath, sopra Marcus invece sembra stagliarsi l’ingombrante ombra del padre di Philip Roth o, se non altro, quella dei padri in generale. In quello che è uno dei suoi libri più dolorosi, Patrimonio, il romanziere di Newark abbandona ogni scenario di fantasia e racconta della malattia degenerativa del padre che lo sta consumando (che anche questo spunto biografico sia servito a Schamus nella fase di scrittura della sceneggiatura di Indignation?). Sembra essere per Roth un momento di catarsi e di rottura: scrive per esorcizzare il dolore e per dire finalmente addio a suo padre. La pubblicazione del libro, nella sua accezione più pura di “rendere pubblico”, è l’atto finale che suggella la separazione definitiva dalla persona amata, quella che ha contribuito a dargli la vita.
In Indignazione, sia nel film sia nel romanzo, la centralità della figura del padre di Marcus è tale d’accompagnare il protagonista anche quando non è fisicamente presente in scena. L’ansia di perdere suo figlio in guerra, la preoccupazione che questi possa frequentare persone sbagliate, il terrore che possa commettere errori durante la sua permanenza al college sono macigni che Marcus deve portarsi appresso per tutta la narrazione. Neanche la distanza lo salva da questo supplizio perché le telefonate tra i due lo fanno ripiombare nella realtà da cui è scappato: casa sua. Beffardamente, le paure del padre di Marcus si concretizzano e suo figlio, per una catena di eventi, viene spedito in Corea dove viene ucciso (infilzato e lasciato dissanguare proprio come un animale venduto in una macelleria kosher) e la sua vita finisce bruscamente, in una terra straniera, lontano dai suoi affetti, combattendo per una guerra in cui non crede e cercando di aggrapparsi ai ricordi di un’esistenza non vissuta pienamente e che, sotto morfina, baluginano confusi, sperdendosi nella notte.
Le esistenze dei protagonisti vengono separate per sempre, ma fino alla fine entrambi sembrano proiettare ricordi l’uno verso l’altra, incapaci di dimenticarsi a vicenda e cullando il pensiero di cosa ne sarebbe stato delle loro due vite insieme. Con amore o quello che è.
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