
Dopo l’amore, un atto doloroso di crescita
February 8, 2017Il titolo italiano dell’opera, Dopo l’amore, andrebbe a descrivere a priori uno degli aspetti cardinali dell’intreccio, ossia la separazione di una coppia dopo quindici anni di matrimonio, col presupposto di raccontarne le dinamiche.
Il titolo originale, L’economie du couple, sottolinea invece, più efficacemente, un aspetto più sottile: in corso di separazione, ciò che occupa la mente dei coniugi è fondamentalmente la distribuzione delle proprietà, i litigi circa la spartizione delle responsabilità, degli orari e dei giorni destinati al rapporto coi figli (mostrando, con una freddezza crudele, e necessaria, come i figli diventino oggetto di contabilità al pari delle spese condominiali), le reciproche rivendicazioni sul proprio contributo nelle spese dei beni mobili e immobili.
Il che, nella sostanza, non fa presuppore che l’amore sia terminato. La caratteristica del realismo francese delle pellicole contemporanee, di cui le nostre sale assorbono la gran parte (Florida, In nome di mia figlia, Un padre una figlia, Il medico di campagna, Les souvenirs, tutto Ozon) è di mescolare una certa levità della narrazione, escludendo i patetismi melodrammatici, i giudizi legati ad un manicheismo perbenista e una recitazione ipertrofica, con un’impostazione registica rigorosa, tacita, al servizio dell’interpretazione attoriale, quasi sempre minimalista, con sporadici, ma potenti elementi di autonomia in grado di conferire quel guizzo autoriale a conferma che la macchina da presa abbia un cuore pulsante.
In quest’opera, il silenzio del regista Joachim Lafosse, al tempo stesso confinato e libero in una sequenza di immagini imprigionate per cento minuti all’interno dell’abitazione dei coniugi, si interrompe quando indugia sui volti degli attori, senza la pretesa di indagarne l’introspezione, ma lasciando respirare ciò che comunica il fenotipo: la moglie Marie (Berenice Bejo), lavoratrice di stampo (piccolo) borghese, la mente lucida della coppia, la ragione che a fatica obnubila il sentimento alla presa di coscienza del fallimento e torna a malincuore sulla prosaicità e pedanteria del rispetto della spartizione dei figli e dei beni; il marito Boris (Cedric Kahn), infantile e capriccioso, scollegato dalla realtà lavorativa e dalle responsabilità, al tempo stesso irrazionale ma determinato ad ottenere la parte di soldi che gli spetta.
La relativa piattezza della narrazione, che si fonda più sui silenzi che sui dialoghi/battibecchi, è in funzione di un racconto del quotidiano che non ammette sconti, né viene impreziosito da inutili fronzoli. Lafosse preferisce soffermarsi sulle attività proprie della famiglia (il pasto, il bagno alle figlie, il vestirsi, i conti della spesa), interrotti dalle continue discussioni, per distorcere l’idea di famiglia stessa e raccontare, in sostanza, dove giacciono le piccole crepe che nel gioco lungo conducono alla frattura.
Ciò non fa presuppore che il sentimento sia terminato. Il messaggio dell’opera sembra duplice (vero in maniera assai dolorosa): l’amore non si regge solo sul sentimento, e termina per una sequela estenuante di piccole cose. Non si racconta di grandi questioni: si parla, come accade nella gran parte dei casi, di una diversità di caratteri, di vedute del mondo e della vita, di maturità personale, che nel tempo portano ad una tale inconciliabilità che il sentimento nativo, quello potente, orgasmico, viscerale, adrenalinico, pur ancora necessario, non è più sufficiente a mantenere salda la relazione. Allora proprio questa diversità, nella vita quotidiana, protratta per oltre un decennio, determina uno stillicidio rancoroso che è vero logorio ed abbatte ogni possibilità di prosieguo.
La sequenza, bellissima, del ballo in casa con le figlie, quando finalmente la casa diventa ancora focolare domestico, ambiente in cui è nato e si è rafforzato l’amore, l’home degli anglosassoni, dopo che il decoro degli ambienti, sottolineati dalla regia, aveva ricondotto quelle mura ad una asettica/asfittica colata di cemento senza vita, una house che deve essere smembrata sulla base del valore economico. O la sequenza, muta d’una subitanea e dolcissima sacralità, dell’ultimo atto sessuale della coppia, come un risveglio della coscienza al tempo dell’amore senza freni o responsabilità, ancora libero di volare senza ganci sulla terraferma (che ricorda il Luchetti di Anni felici, una pellicola d’una delicatezza e un tormento straordinari); una sequenza fugace, in cui si mostra meno dell’essenziale, perché la sua essenza si consuma altrove, fuori dalle mura, in un tempo irrimediabilmente lontano.
Il sentimento anzi pulsa di dolorosa vita proprio nella consapevolezza della propria agonia. È nella messa in scena della quotidianità che Lafosse dispiega lo strazio della nostalgia, la necessità di una introspezione individuale, e al tempo stesso, sul piano pratico, la voglia di disseminare il dubbio, gli interrogativi, ma soprattutto la mancata presa delle parti. Non c’è interesse nel raccontare la storia del torto e della ragione, quanto la banalità della loro assenza: sprecando anni nel rimanere nelle loro individualità, senza il confronto e la crescita della coppia, la rottura della famiglia, per quanto sia amaro da accettare, non è colpa di nessuno. Nonostante alcuni comportamenti di Marie o Boris possano indurre a dare giudizi, nei fatti sono entrambi oberati da una situazione che li costringe ad esporre i propri limiti, ma che si sforzano di gestire al meglio nel rispetto delle figlie (una delle due gemelle va in overdose da ansiolitici della madre: la colpa è di lei che li ha lasciati in mostra o di lui che si è distratto e ha lasciato che la figlia li assumesse?).
In conclusione, la separazione della coppia finisce col coincidere con la definitiva maturità dei coniugi, con la presa di coscienza degli errori commessi, il risveglio dalla dimensione infantile per cominciare, finalmente, a fronteggiare il mondo. Non sempre la famiglia è sinonimo di piena affermazione del sentimento: in questo caso, e in un numero spaventoso di casi, è ottusa perpetuazione di errori a cui si è troppo codardi per porre rimedio.
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