Berlinale67, Django e il jazz del pescegatto

Berlinale67, Django e il jazz del pescegatto

February 18, 2017 0 By Simone Tarditi

Se Django Reinhardt possa essere considerato a tutti gli effetti un musicista jazz o se debba essere invece inquadrato all’interno della cornice storico-folkloristica della “musica gitana” è motivo di dibattito, d’incontro e di scontro per molti musicologi delle ultime decadi. Mentre queste voci continuano, sempre più flebilmente, a consumare ossigeno, sprecare tempo e sterminare alberi per imporre la propria posizione agli altri attraverso la carta stampata, il biopic Django, che ha aperto la 67ma edizione della Berlinale, sembra voler prendere ogni strada necessaria per far sì che la figura del musicista belga possa depistare le sue tracce e smarrirsi tra la moltitudine di suoni e di paesi.

Due dita atrofizzate dopo un incidente e altrettante falangi con cui suonare la chitarra, velocità delle mani, innovazione e contaminazione tra generi, sorriso beffardo, baffi da pescegatto, la passione per la pesca, l’assoluta incapacità di prostrarsi di fronte a nessuno e la scimmia Joko sulla spalla. Django Reinhardt ha saputo creare attorno a sé un’aura di fama e genialità lungo tutta la sua carriera e lo scopo del film non è tanto quello di mostrarci la sua evoluzione umana ed artistica nell’arco degli anni, ma soprattutto quello di concentrarsi esclusivamente intorno a due di questi (1943-1945), funestati dalla Seconda Guerra Mondiale durante i quali il musicista deve lottare per la sua vita e la sua libertà. Django riesce abilmente a narrare una molteplicità di eventi che si snodano attorno al chitarrista, ma anche il caos, la confusione e i compromessi con cui egli deve avere a che fare senza perdere di vista l’obiettivo prefissato: varcare il confine e fuggire nella neutrale Svizzera per poter sopravvivere alla repressione.

In quella che è a tutti gli effetti una caccia all’uomo, Django Reinhardt si porta appresso gli affetti più cari, ma soprattutto la sua chitarra, considerabile come una vera e propria estroflessione del suo corpo, qualcosa che è parte insostituibile di lui e a cui potrà rinunciare solo in un atto finale di sacrificio per mettersi in salvo. Come la sua anche quella di altri artisti dell’epoca, la vita di Django diventa governata dalla rinuncia e da una fuga costante. Il musicista non è un pesce fuor d’acqua, ma un animale privato del suo ossigeno, della libertà.

Django non si limita a raccontare solo lo storia del tentativo di aggiogamento da parte del regime nazista nei confronti di un’artista, ma vive di momenti di grande respiro quando tratta il tema della musica negli anni ’40 (dalla stesura ed esecuzione della sinfonia, parzialmente perduta, in memoria dei gitani perseguitati, al groviglio di miti, leggende e verità sui musicisti jazz dell’epoca: Louis Armstrong, Duke Ellington, i duelli tra Lester Young e Coleman Hawkins). Inaspettatamente, quello che è un biopic su un musicista sfocia anche in momenti puramente legati al mondo del cinema allorché si dedica un’intera scena all’imitazione che Django Reinhardt fa di Clark Gable (stessi baffi) culminante nella battuta del chitarrista sull’atto di andare al cinema per “fare dei bei sogni e fuggire dalle angosce”, ma anche la proiezione di un documentario di propaganda nazista ri-montato, con comici avanti-indietro, per suscitare l’ilarità del pubblico parigino frequentatore di jazz club.

Nonostante non sia stato particolarmente apprezzato dalla critica, Django fa della confusione degli eventi narrati il suo punto di forza più grande perché il film non tratta di un funzionario di stato o di un venditore di scarpe, ma di un grande talento, dei suoi turbamenti, delle sue passioni e della sua lotta per trovare la libertà per poter tornare a respirare ancora.

Simone Tarditi
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