
Berlinale67, nelle terre selvagge di The Lost City of Z
February 19, 2017Nell’arco del primo quarto del Novecento, il colonnello Percival Fawcett (Charlie Hunnam) si reca nella Foresta Amazzonica dapprima con l’esploratore Henry Costin (Robert Pattinson) e poi successivamente col proprio figlio Jack (Tom Holland). Fawcett è intenzionato a trovare i resti della mitica città di Z a costo di accettare ogni conseguenza che questi viaggi possono recare con sé. Presentato nella sezione “Special Gala” della Berlinale, The Lost City of Z ha avuto la sua anteprima europea proprio nella capitale tedesca.
C’è chi l’ha descritto come un film racchiuso tra l’eleganza di Barry Lyndon (Stanley Kubrick, 1975) e il pericolo di Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979), ma The Lost City of Z, nel bene e nel male, procede in una direzione tutta sua, un po’ come tutto il cinema di James Gray, coi suoi ritmi e il suo gusto registico che spesso non incontra quello del grande pubblico. Da un certo punto di vista, sembra quasi che il regista si affezioni così tanto alle storie che porta sul grande schermo da infischiarsene di possibili incongruenze narrative e di confezionare dei prodotti che in primis debbano piacere a lui stesso. In questo caso, per The Lost City of Z, la casa di produzione Plan B di Brad Pitt (che inizialmente avrebbe anche dovuto interpretare il ruolo andato poi a Charlie Hunnam e prima ancora passato per le mani di Benedict Cumberbatch) ha saputo lasciare la giusta briglia sciolta a Gray, assecondando per un attimo la follia di fare un film così, totalmente incompatibile con le logiche della grossissima distribuzione e che, sostanzialmente, racconta una storia folle fatta da uomini folli.
Per carità, è proprio questo il bello di The Lost City of Z. La cura per ogni singolo dettaglio scenografico, per ogni fascio di luce che attraversa stanze, foreste e volti dei protagonisti, per ogni scelta registica è dettata da puro raziocinio ed è paradossale e meraviglioso che tutta questa “confezione” nella quale il film è collocato vada a contenere anche le tenebre, la morte, il desiderio di spingersi sempre più in là, l’ignoto, tutti elementi che costituiscono il vero cuore del film: una vicenda di uomini che, una volta addentratisi nell’oscurità di quello che ancora non si conosce, non possono fare a meno di ritornarvi per cercare ancora una risposta a delle nuove domande.
L’epoca che fa da sfondo a The Lost City of Z è quella degli zoo umani (li chiamavano anche “giardini di acclimatazione”), che al pari della barbarie di quelli per gli animali, contenevano invece esseri umani in carne (poca) e ossa (per lo più) in terribili condizioni di denutrizione e sporcizia solo per soddisfare il perverso gusto per l’esotismo della società dell’epoca che per pochi spiccioli poteva osservare da vicino delle persone in gabbia. Di tutto questo, nel film di James Gray non c’è traccia. Rimane però, come testimonianza del passato e monito per il futuro, l’impronta della presunta superiorità bianca che si nutre e si ciba di se stessa nelle umide pareti della paura del diverso dove cresce rigogliosa l’ignoranza.
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