Manchester by the sea, non ricordare con rabbia

Manchester by the sea, non ricordare con rabbia

February 21, 2017 0 By Mariangela Martelli

Presentato in Italia nell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, “Manchester by the sea” è la nuova pellicola targata Kenneth Lonergan (regista e sceneggiatore) già riconosciuta e premiata ai Bafta e Golden Globe è inoltre candidata ai prossimi Oscar con sei nominations.

Lee Chandler (Casey Affleck) non è esattamente il protagonista che rimane simpatico a pelle: è un uomo scorbutico, solo e chiuso in se stesso. Sopravvive a Boston facendo il factotum nei condomini: ripara tubi gocciolanti e wc intasati, entra nelle case delle persone scambiando poche parole con loro (al massimo volerà qualche insulto e uscendo sbatterà la porta). Una vita lontano da tutti (forse volutamente cercata o in conseguenza di qualcosa che dalle prime scene ci sfugge) che lo vede impegnato nella maggior parte della giornata: la mattina presto spala la neve davanti la porta del suo monolocale-scantinato, poi visita i suoi clienti ammazzandosi di lavoro fisico e non esita a crearsi le occasioni giuste per fare a botte la sera al bar. Manchester by the sea: il titolo richiama la cittadina della costa del Massachusset in cui Lee è nato e in cui dovrà necessariamente ri-tornare. Il passato che vorrebbe cancellare si insinua tra i mormorii della gente che non vorrebbe sentire: sono conti in sospeso ma momentaneamente accontonati per lasciare spazio al dolore che ha travolto la famiglia Chandler, la morte del fratello maggiore Joe (Kyle Chandler) per problemi cardiaci. Lee, costretto a sbrigare le pratiche della situazione, scopre di essere stato nominato tutore del nipote Patrick nel testamento. Non si aspettava un’evoluzione del genere, la sua priorità è andarsene ma sa che non può. Rimanendo non riesce a fare ciò che gli altri si aspettano da lui, ad essere utile in qualche modo: Lee non ha alcuna urgenza di uscire dallo stato di limbo che si è costruito attorno. Chi sente l’impulso di continuare la propria vita è Patrick (Lucas Hedges), un adolescente che approfittandosi anche un po’ della circostanza in cui nessuno lo tiene troppo d’occhio, si sente libero di decidere cosa fare senza essere giudicato. Zio e nipote sono accumunati da uno stato di mancanza in cui non capiscono bene ciò di cui hanno bisogno ma ognuno reagirà in modo differente per riuscire ad affrontare il trauma: Lee chiudendosi ancora di più in sé, Patrick cerca di circondarsi sempre di amici o di trascorre il tempo con una delle sue due fidanzate, non sapendo gestire la solitudine. Molte scene traboccano disagio, rabbia e frustazione come nei dialoghi-battibecchi tra zio e nipote, in cui le parolacce gridate sono seguite subito dopo da scuse imbarazzate. Negli sguardi bassi che sfuggono a chi sta accanto, schiene voltate o abbracci che non riescono a rassicurare perché appena accennati, c’è il non prendersi cura abbastanza dell’altro o sentirsi dire: “va tutto bene, adesso sono qui”.

Eppure nel flashback della scena di apertura tutto era pieno di felicità, mentre i due fratelli Chandler e Patrick bambino ridevano, si prendevano in giro e pescavano sulla barca di famiglia “Claudia Marie”. Il passato è passato: l’immagine della barca che li cullava sull’oceano non è più il loro punto fermo, adesso il motore è rotto e Patrick sarà il solo a interessarsene, a opporsi alla vendita ed a ripararla in qualche modo (magari con dei pezzi di seconda mano). Sembra paradossale la comprensione che mostrano infermieri, amici di famiglia e poliziotti verso Lee: il fastidio è come amplificato, mentre il nostro protagonista continua a sentirsi fuori posto. Una vita agra fatta di disperazione mal celata, di asprezza nel cuore. La sceneggiatura montata sull’alternarsi di flashback e narrazione presente ci mostrano il Lee di un tempo, capace di provare tenerezza, emozionarsi e amare la propria famiglia come le proprie incrinature, gli errori, i tormenti e le incomprensioni. E poi quei ricordi che lo-ci travolgono come una marea improvvisa, silenziosa e disarmante. L’armonia della colonna sonora (Lesley Barber) è nelle onde e nei colori del porto di Manchester by the sea ma non offre un antidoto al dolore, una tregua al senso di colpa. La luminosità composta della fotografia (Jody Lee Lipes) stride con l’inverno che affiora dalla pelle di Lee, la resilienza graffia come la lama che scivola sul ghiaccio nella palestra di hockey, la rabbia esplode in schegge di vetro quando prende a pugni la finestra. La grazia è effimera, un barlume sottile nelle scene in esterno, il calore si propaga a piccole dosi nelle stanze dei Chandler mentre i personaggi sembrano chiedersi se sia giusto o meno afferrarlo.

Quando giunge la consapevolezza di un passato che non solo non si può cambiare ma neanche superare, ecco che i ricordi/fantasmi si fanno da parte, non svanendo del tutto lasciano uno spazio maggiore al tempo presente. Alla difficoltà e vulnerabilità di prendersi cura di sé e di chi gli è stato affidato. Nel film di Lonergan, le figure femminili appaiono poco o vengono citate senza mostrarsi, sono essenziali e assenti al tempo stesso: dalla madre alcolizzata che non vede il figlio-Patrick da anni, al nome di colei che omaggia la barca, passando per Randi (Michelle Williams).

Quest’ultima è l’ex moglie del protagonista e compare in una manciata di scene, nonostante sia una figura importante per lui e fondamentale alla sceneggiatura. Ci viene presentata a letto con l’influenza (durante il primo dei tre flashback che la ritraggono sempre con Lee) per poi trovarla arrabbiata con il marito che fa baldoria con gli amici alle due di notte nel seminterrato, mentre i figli dormono al piano di sopra. Ma è nella scena “al presente” in cui i due si incontrano, per caso, entrambi reduci della tragedia che gli è piombata addosso. Michelle Williams è perfetta e struggente, l’unica a rivelare ciò che sente: quei sentimenti spezzati non colmano lo iato tra lei e Lee, le parole traboccano senza fluidità, balbettano incerte tra le macerie del passato e l’adesso. Un’immagine di fragilità vera, palpabile, che strazia senza farsi patetica né eccessiva: la bravura dei protagonisti e la sceneggiatura spiazzante  sono messi in risalto dall’asimmeria del muro sullo sfondo. Il contrasto che nasce dall’incontro tra la luce ferma e rassicurante della costa del Massachussets e il ghiaccio che circonda le strade e le esistenze dei Chandler, fanno di Manchester by the sea un film capace di commuovere senza esistare a sbattere in faccia allo spettatore una realtà aspra, plasmata da un passato difficile da accettare ed impossile da assimilare. Ci sono anche scene che non ci aspettiamo, in cui si respira un certo black humor e ironia per spezzare il momento d’imbarazzo in cui si ritrovano i personaggi che sembrano dirci che la vita è anche questo: che a volte è inevitabile non sorridere in un momento difficile. La pellicola è durata poco più di due ore, ma ne siamo totalmente coinvolti e usciti di sala ritorniamo a riflettere sugli eventi, reazioni e soprattutto sul finale aperto, in cui non ci vengono (giustamente) fornite delle soluzioni definitive. Quello che conta è avvertire tutta la fragile bellezza delle cose in divenire.

“Non puoi aggiustare tutto, non ti pare? Ci proviamo sempre. Ma non ci riusciamo”.
(Kent Haruf, Le nostre anime di notte, Nneditore).

 

Mariangela Martelli