
Il tempo come un punto inesteso. Un articolo in difesa di Arrival
February 22, 2017Edit: questo articolo si pone come risposta ad un’iniziale analisi non positiva di Arrival
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S’è scritto molto su Arrival. Da quando il film di Villeneuve è stato presentato a Venezia, pubblico e critica si sono divisi in sostenitori o detrattori. Proveremo a dire la nostra in un momento in cui il film è ancora, forse, in qualche sala.
Arrival non è un film perfetto. La seconda parte è sicuramente più debole della prima. Ma la coesione del film è data da un’atmosfera poeticissima che si rifà al concetto di maternità e al ritorno del tempo su stesso, che è il tempo classico e quello in cui tutto accade eternamente di nuovo. Non a caso è il cerchio l’emblema del film: circolare è il tempo, come circolare è la scrittura degli eptapodi che Louise è chiamata a decifrare. Sbagliano coloro che accusano il film di avere una struttura insincera perché subito disvelante la fine del film. La verità è che l’arma consegnata dagli eptapodi non è tanto la capacità di prevedere il futuro – cosa che può sembrare inizialmente dato che la storia è narrata in flashblack – quanto la capacità di comprendere un tempo che ha in sé, contemporaneamente, il passato, il presente e il futuro. Il tempo di Arrival non è lineare, ma è eterno: la sua immagine non è quella della semiretta, ma quella del punto, che contiene tutto in sé eppure è inesteso. E’ il tempo, se vogliamo, della fine del mondo, quando, come diceva Kant, non ci sarà più alcuna scansione temporale. Tutto quello che è al di là del tempo è eterno e immutabile, e perciò non si possono cambiare la malattia della figlia di Louise, l’arrivo degli eptapodi, l’incontro con Jeremy Renner.
Arrival si perde proprio nel momento in cui tenta di far capire allo spettatore che non si trova in una dimensione spazio-temporale lineare, ma in quella, senza-tempo, in cui Louise conosce contemporaneamente presente, passato e futuro. Ed è per questo che tutto quello che è accaduto con gli eptapodi accade da sempre e sempre accadrà. Esattamente come in un circolo. Nel raccontarlo, Villeneuve si fa aiutare da una bravissima Amy Adams, ingiustamente snobbata agli Oscar, che trasmette alla sua Louise tutta la tensione interiore di una madre che perde una figlia e tutta la passione della linguista che tenta di capire una lingua aliena in quanto madre e in quanto donna.
Apprezziamo chi riconosce questa dimensione femminile e primigenia del film, che ha alla base l’ipotesi di Sapir-Whorf, per cui lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Louise può conoscere passato, presente e futuro apprendendo la lingua degli eptapodi. Non si può dire lo stesso di Jeremy Renner, che non apprende la lingua allo stesso modo e rimane sordo ad essa.
Basterebbe questo per rendere Arrival un film sopra agli altri e sicuramente un buon film di fantascienza. E si lasci perdere Interstellar. Louise non va mai nello spazio, nessuno va a cercare gli eptapodi. La presunta minaccia non si rivela tale, non c’è nessun eroe che deve salvare l’umanità. E’ che tutto è già successo e succederà ancora. Come in un punto quale centro della circonferenza che ha in sé tutti gli eventi eppure non ne dispiega nessuno.
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