Barriere, le colpe dei padri

Barriere, le colpe dei padri

February 24, 2017 0 By Gabriele Barducci

Barriere è come una vecchia macchina usata, una di quelle con il telaio usurato, di colore diverso per via dei cambi o ricambi di pezzi, arrugginita, con i classici trecentomila kilometri, sai già tutti i suoi problemi, difetti o pregi. Puoi piegarti verso lo sterzo, poggiarci sopra l’orecchio e sentire quel vecchio motore sussurrare qualcosa. Ogni singhiozzo è un dato che ci mostra e ci parla di ogni suo stato d’animo, e questa vecchia macchina altri non è che Denzel Washington.

Testo teatrale, quattro mura, un porticciolo e uno steccato da costruire. Le Barriere del titolo sono sia tangibili che metaforiche: Troy Maxson è un padre e marito dal buon cuore ma mostra sempre e solo il suo pugno di ferro. La moglie deve rimanere a casa con lui, il figlio piccolo vorrebbe giocare a football ma glielo impedisce – quello è uno sport da bianchi, i neri restano in panchina – e un altro figlio maggiore cerca un’approvazione e una fiducia da parte del padre che mai arriverà. La notizia di una neonata in arrivo, non figlia della moglie, mostrerà tutte le debolezze di Troy, un uomo segnato da un passato di violenza e sofferenza su cui in quella casa, che si vanta di aver pagato con ogni centesimo del suo stipendio, non solo ha posato le sue radici, ma ha costruito la sua vita ideale, fatta di mobili pagati a rate ma belli da vedere, di un weekend a lavorare in giardino e un venerdì pomeriggio passato a bere. La bottiglia di Gin è sempre in mano, butta la carta, svita il tappo e la apre, versa poche gocce in terra, in segno di rispetto, alza la bottiglia e butta giù il primo sorso.
Oltre la natura teatrale dell’opera da cui è derivato, l’ambientazione degli Stati Uniti di fine anni ’50 ci riporta sempre alle lotte interne tra bianchi e neri. Troy è uno spazzino e si è pagato una casa, nel paese dei bianchi togliendone la spazzatura dalla strada. Vuole ed esige il meglio per i loro figli, ma dovranno lavorare, solo il lavoro è l’ancora di salvezza per un paese che secondo lui, emarginerà sempre più le persone con la pelle scura.

Ma il pugno di ferro di Troy è dato da un padre assente, forse morto, che gli ha riservato solo sofferenze. Nel cinema lo scontro tra padri e figli ha visto molte sfaccettature, ed entrambe hanno mostrato quanto la necessità di un’approvazione mai avuta, abbia influenzato, anzi, lasciato una cicatrice enorme nell’animo dei nostri personaggi. Pensiamo al Locke di Tom Hardy, che segue un’idea assolutamente sbagliata, lo spettatore ne è consapevole, ma per il nostro protagonista è la possibilità di non fare lo stesso errore del padre, o anche nel Sutter di The Spectacular Now, credere di aver il super papà, adeguarsi al proprio stile di vita, sperare di averlo per sempre, per poi scoprire l’amara verità che essere soli al mondo alcune volte, rende vacuo ogni tentativo di costruzione di castelli di carta.

Il Troy di Denzel Washington zoppica, sentiamo perfettamente il peso di questo corpo che si poggia con fatica sull’unica gamba buona.
Tutti sono bravissimi e tutti sono in parte ma è sempre questo vecchio attore che ne esce vincitore: un motore perenne che non si ferma mai e che riesce anche a farci fermare per qualche secondo, ragionare sull’attuale, anche su un testo che si sofferma su una realtà che non ci appartiene, ma che forse non abbiamo abbandonato, esattamente come le colpe dei nostri padri che come i debiti, ci rincorreranno costantemente e non ci faranno mai entrare in una casa che non sia la nostra a testa alta.

Gabriele Barducci
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