The Night Of: nelle tenebre della decadenza occidentale

The Night Of: nelle tenebre della decadenza occidentale

March 2, 2017 0 By Angelo Armandi

PREMESSA: LA METROPOLI E IL MONTAGGIO PARALLELO

La serie televisiva The Night Of, produzione HBO 2016, sfrutta appieno le possibilità espressive della serialità, senza rinunciare ad un approccio cinematografico che riesce a scavalcare i limiti della narrazione, classicamente intesa e perno della poetica seriale, per conferire all’opera un senso più profondo.

La possibilità di sviscerare le coscienze ed operare una profonda introspezione dei personaggi dà alla serie televisiva una complessità che corre parallela al cinema, complementare ad esso, laddove questo, operando per un tempo più ristretto, deve concentrarsi maggiormente sui simboli, sulla tecnica, sulle interpretazioni attoriali. In The Night Of la narrazione, pur avendo possibilità di ampio respiro, è a tal punto striminzita che talvolta ci si dimentica dell’intreccio, immersi in una massiccia dilatazione temporale che conduce ad uno stato di tensione emotiva, un’inquietudine che emerge dai fotogrammi e giunge a turbare la visione, infastidirla come un’interferenza costante. Quello che interessa è che la maggior parte dei fotogrammi ritraggono ambienti quotidiani, domestici, esterni cittadini, un carcere, un tribunale, tutti elementi familiari che però, per una forma di angoscia scaturita da fattori conturbanti (uno dei cardini della poetica lynchiana), desta terrore.

Solo dopo si arriva a comprendere che The Night Of è il racconto asettico, asciutto eppure incredibilmente vicino, di una metropoli che abbraccia, plasma e corrompe il cittadino. Apertura della serie con una melodia di violini che è emanazione stessa di un noir melanconico, straziato da una componente amorosa dai connotati fatali, dinanzi allo sfondo della città buia, brulicante di luci alienanti (ancora Lynch, con un senso di consapevolezza della maledizione che sembra discendere dalla cinepresa di Ferrara), popolata da cittadini incattiviti e insofferenti alla morale. E innumerevoli campi vuoti, l’ossessione per i particolari inanimati, per la rappresentazione di una meteorologia che assurge a ruolo di potente significante, e molteplici punti macchina che inseguono e immortalano pezzi di mondo, con l’affanno di volerlo ricostruire con precisione entomologica, disdegnando per un attimo i personaggi, marionette impotenti nell’universo imperante di cemento, smog e architetture glaciali, nella speranza di arrivare a cogliere il cuore delle cose. Che la metropoli possa racchiudere luoghi dell’esperienza umana della nostra civiltà è ben espresso da una poetica postmoderna di delilliana memoria, pur privilegiando, in questo contesto, l’assetto tormentato, fosco ed erotico (le due componenti di carnalità dell’uomo: l’orrore e il sesso) del noir classico.

Poi, inaspettatamente, ritorna l’ossessione per i corpi, per le vittime dell’ingerenza del metallo e della civiltà (decostruendo la pulsione e imponendo l’addomesticamento dell’uomo, una fonte di ribellione che trova influenza eminentemente in Cronenberg). L’ossessione sembra confinata alla carne, al fenotipo, a ciò che, fisiognomicamente, possiamo arrivare a dedurre. La macchina da presa non ha la pretesa di esplorare le motivazioni, ammette l’impossibilità di comprendere l’irrazionalità dei comportamenti e la molteplicità di ragioni, controverse/illogiche/viscerali/immotivate, per delle azioni che esitano, quasi invariabilmente, in un costante tormento, una solitudine che viene esasperata dalla sterminata, indifferente estensione della metropoli, ed è cifra costante della condizione d’esistenzialismo contemporaneo.

Questa solitudine viene comunicata da un potentissimo mezzo cinematografico: il montaggio parallelo. Le vittime, gli aguzzini, i colpevoli, i disperati, ogni pedina sulla scacchiera vive la propria condanna in apparente autonomia, intervenendo a spezzare costantemente la narrazione, come se si trattasse di molteplici sotto trame che vivificano e conferiscono all’opera una coscienza di grande spessore, e ciascun personaggio, parallelamente, vive un’esistenza differente, più o meno tormentata, più o meno assediata dal senso di colpa, eppure accomunata, sembra dirci la coppia registica Richard Price – Steven Zaillian, dall’incapacità di comprendere il mondo, fronteggiarlo, in una condizione di sostanziale, inamovibile inettitudine. Ed è costantemente presente l’oscurità, dai colori ipersaturi come scaturiti da una allucinazione, come se un Travis Bickle contemporaneo percorresse la città sotto la spinta della stessa alienazione, e la metropoli fosse l’intera proiezione mentale del decadimento e della progressiva fragilità della coscienza.

IL DELITTO: L’INCONSISTENZA DELLA TRAMA

Dinanzi alla portata espressionistica dell’opera, la trama appare decisamente inconsistente. Lo studente pakistano Nasir Khan (Riz Ahmed) viene da una famiglia tradizionalista e compatta nel fronteggiare la rabbia razzista del popolo americano nei confronti della loro gente dopo l’11 settembre (una delle molteplici sottotrame, e anch’essa pretesto narrativo per tessere la trama di una civiltà in regressione). Va a letto con una ragazza, Andrea Cornish, dopo aver fatto uso di stupefacenti. Il mix droga-sesso spalanca le porte della percezione del ragazzo, che mai aveva provato una tale, sfrenata danza d’anarchia che confonde per libertà/innamoramento, al punto da rimanere sostanzialmente inebetito e lasciarsi sopraffare dagli eventi successivi. Ovvero: si sveglia la mattina dopo, trova la ragazza morta in un lago di sangue, fugge spaventato, per una serie di sfortunati eventi viene arrestato e processato, sotto lo sguardo implacabile, e moralista dell’America, per stupro e omicidio. Un processo che sembra alle premesse scontate, per la mole di prove contro il ragazzo e per la sua totale passività (quasi una forma perversa di depressione catatonica) e all’apparenza noncuranza della condanna quasi certa.

The Night Of non è la notte in cui prende avvio il caso giudiziario, è la notte in cui possiamo operare uno squarcio nei visceri del mondo, e sulle note del processo, giungere a sfiorare il profondo senso delle cose.

I VOLTI DEL PROCESSO: PRURITO E PRUDENZA

L’espressione inglese “to walk in someone’s shoes” viene usata per indicare il “mettersi nei panni di qualcuno”. Cercare di capire cosa sta provando una persona prima di giudicarla dovrebbe essere il compito di ognuno e invecchiando bisognerebbe imparare a farlo. Prima o poi ci si riesce, con impegno e costanza. All’interno di The Night Of, insieme a decine di altri possibili spunti di riflessione, spicca sicuramente quello legato alla giustizia e al giudicare: la serie tv gravita attorno ad un caso di assassinio e alla persona accusata di essere l’omicida.

Senza che il processo sia neanche iniziato, gli indizi contro il giovane pakistano sono talmente pesanti che la sua colpevolezza pare cosa certa per quasi tutti. Il ragazzo si è ficcato in un brutto casino, non è stato prudente e le sue azioni hanno avuto ripercussioni anche sulla sua famiglia, addirittura estranea al fatto che lui fosse uscito di casa e avesse preso in prestito il taxi del padre quella fatidica sera. The Night Of, come Indignation, ci racconta di come si possa sprofondare in una tragedia senza quasi rendersene conto.

Il caso di omicidio, di puntata in puntata, perde quasi d’interesse e la sua risoluzione è sbrogliata con non poca velocità perché in fondo non costituisce l’elemento più importante. Per gli appassionati di sceneggiati televisivi a timbro puramente giudiziario ci sono le puntate di Perry Mason. Per carità, tutta questa componente c’è, ma lo sguardo indagatore di chi la serie l’ha scritta e l’ha diretta punta su tutti gli aspetti che riguardano l’umanità rappresentata. Attorno al delitto, i protagonisti di The Night Of convogliano insieme verso lo stesso punto, ma c’è un fattore che tutti hanno in comune: nessuno è davvero per come si mostra in pubblico e con gli altri. Il trapasso è immediato perché non solo nessuno sembra riuscire a calarsi veramente nei panni dell’imputato, ma ognuno non vuole mostrare all’altro chi sia realmente. Tipo che il più sano c’ha la rogna, ecco.

Tra i tanti, ci sono due momenti altissimi e vicinissimi tra di loro in The Night Of, uno non dura neanche dieci secondi, l’altro si protrae per tutta la serie. Nell’ultima puntata, l’avvocatessa che fino allo stremo ha dato il filo da torcere alla difesa, esce dal tribunale dopo essersi tolta i tacchi e aver indossato delle comode e sformate scarpe da ginnastica. Rinuncia finalmente all’immagine che ha voluto dare di sé fino a quel momento e torna ad essere se stessa, con tutto quello che (positivamente) ne consegue. Dall’altro lato della barricata c’è l’avvocato John Stone (John Turturro, vero e unico protagonista di The Night Of) che ha difeso fino all’ultimo il suo cliente e che ha lottato con una terribile forma di eczema dovuta (anche o soprattutto) a cause psicosomatiche.

C’è chi ha visto nel peggiorare della sua malattia cutanea un parallelo sprofondare in acque sempre più torbide da parte del suo cliente, ma questo è vero fino a un certo punto: complice anche l’uso di rimedi apparentemente efficaci e di provenienza cinese, la pelle dell’avvocato sembra quasi guarire del tutto tanto da permettergli d’indossare nuovamente delle scarpe eleganti, che fino a quel momento hanno rappresentato per lui un miraggio apparentemente non concretizzabile. Intanto, l’accusato continua ad affondare e sembra non voler neanche più provare a salvarsi (l’evoluzione del personaggio, durante la sua permanenza nel carcere e alla luce di tutto ciò che di lui viene fuori, è destabilizzante).

Quello che però l’avvocato non ha compreso è che l’eczema è ormai parte integrante di lui, qualcosa che non può essere debellato dal suo organismo. Pertanto, nelle angoscianti ore che procedono l’ultima udienza, la malattia ritorna in superficie sprigionando una forza che fino a quel momento non ha avuto pari. E non può essere altrimenti, perché l’uomo devastato da quella patologia è quello vero, quello in gamba, quello che nonostante tutto ribalta le sorti del caso, mentre quello che riesce a calzare di nuovo le scarpe dopo aver apparentemente sconfitto l’eczema è solo una caricatura e non viceversa. E quando finisce tutto e nulla torna magicamente ad essere come prima per nessuno dei protagonisti, il nostro eroe torna a spalmarsi chili di crema Crisco sui piedi e ad avvolgerli nella pellicola, ciabattando ed uscendo fuori di scena. Di nuovo e ancora se stesso.

LA METAMORFOSI DI NASIR KHAN COME RIFLESSO DELL’ABIEZIONE

Anche Nasir Khan, nel corso della vicenda, sembra appropriarsi lentamente di se stesso, collezionando una serie di esperienze, in gran parte traumatiche, che lo lasciano immobile nella dolorosa consapevolezza della crescita in un mondo spietato. Allontanandosi dalla (relativa) purezza con cui conduceva la sua esistenza, subisce una trasformazione, che si palesa anche da un punto di vista fisico (anzi, soltanto dal punto di vista fisico: le pupille di Nasir riecheggiano di una bramosia d’innocenza, laddove il volto rimane impassibile e vagamente tonto) e costringe il ragazzo a diventare incarnazione delle immonde, recondite velleità degli esseri umani.

La sua metamorfosi potrebbe essere lo sfogo necessario (al pari dell’eczema di John Stone) della rabbia violenta accumulata nel tempo per l’incapacità di reagire, oppure la furiosa necessità di appartenenza a qualcosa, il brivido dell’accettazione, la legittimazione della propria identità, la furibonda esaltazione nell’ottenimento del rispetto. A Nasir della condanna importa sempre meno, al punto che, con la soluzione/non-soluzione del processo, importa poco persino allo spettatore. Solo allora si comprende come bisognava piuttosto inseguire il tormento del detective Dennis Box (Bill Camp), terrorizzato dal vuoto che rimane nella sua vita dopo il pensionamento (una miscela di miseria e fallimento umano raccontati con lucida profondità); oppure concentrarsi sul background della vittima Andrea, a riflettere una generazione che ha mantenuto gli stessi, provocanti affronti alle regole degli Anni Settanta, senza però la bussola delle ragioni, esitando in una sconclusionata e pigra forma di ribellione al dovere; oppure soffermarsi sulla personalità dell’avvocato Chandra Kapoor, tanto ligia al dovere da reprimere (e poi abbracciare con lussuria) il fascino erotico della corruzione; oppure godersi masochisticamente ogni singolo fotogramma, che trasuda un senso di disarmante autenticità.

Dopo la visione, come Nasir khan, cambiamo un po’ anche noi. Delle due l’una: o la consapevolezza del marcio, che fa crollare le residue certezze all’alba del nuovo secolo; oppure, come nei migliori romanzi di Philip Roth, comprendere (e chissà fino a che punto accettare), di non credere poi troppo nel moralismo, e che in fondo un po’ marci lo siamo anche noi.

(A cura di Angelo Armandi e Simone Tarditi)

Angelo Armandi