
Effi Briest di Rainer Werner Fassbinder: prigioniera delle ombre
March 15, 2017“Non c’è cosa più terrificante di aver paura del terrore”.
Rainer Werner Fassbinder
DAL ROMANZO AL FILM
E’ il 1974 quando Rainer Werner Fassbinder realizza il film Effi Briest (tratto dal grande classico letterario di Theodor Fontane) a cui pensava da cinque anni. Si tratta dell’unica pellicola “in costume” nella filmografia del regista del Nuovo Cinema Tedesco nonché la sua prima realizzazione “ad alto budget”. Proiettato al Festival di Berlino dove non vincerà l’Orso d’Oro, si confermerà invece come il più grande incasso nelle sale tedesche del ‘74. Fassbinder fa suo questo romanzo senza tempo in cui vengono affrontate tematiche affini alla sensibilità dello scrittore e del regista (come il melodramma, il teatro, le donne, l’amore, la società e il potere). La vita della giovane Effi rispecchia tutti i clichè del melodramma: dal matrimonio per interesse combinato da genitori, alla disillusione, passando per il tradimento e divorzio.
Ricordiamo che Fontane si era ispirato per la sua Effi ad un fatto di cronaca dell’epoca, in cui la storia extra-coniugale e successiva “caduta” della prussiana Elisabeth von Ardenne destarono scandalo nella morale benpensante di fine ‘800. Nella trasposizione su grande schermo, il regista supera il problema di dar voce al dramma psicologico della borghesia di un tempo per lui lontano, trovando soluzione nell’utilizzo di didascalie (significatica quella dell’incipit) e voice off (dello stesso Fassbinder) illustrandoci così l’evoluzione dei protagonisti attraverso i loro pensieri nascosti che adesso prendono forma, mentre la complessità narrativa dello scrittore è liberata grazie all’immagine. L’idea di Fassbinder è quella di “filmare il romanzo” e non la storia, in modo da “far leggere il film” agli spettatori: rifiuta di dare ai dialoghi una traduzione odierna, più colloquiale preferendo lasciare lo stesso tono letterario del romanzo. Non dimentica l’approccio del lettore, che tende ad immaginare gli ambienti e le azioni dei personaggi con i propri ritmi e sensibilità ma cerca di superarlo: “il cinema ha un quoziente di oggettività maggiore rispetto alla letteratura, di conseguenza provoca un coinvolgimento inconscio più ampio”. (R.W.F.)
La sceneggiatura del romanzo, definita da Thomas Mann come “un testo perfetto” risiede nella capacità di Fontane di far commuovere il lettore attraverso la libera riflessione e rielaborazione. Tutto ciò ha permesso all’opera di raggiungere un ampio apprezzamento e successo ma anche di creare dei legami tra il punto di vista del lettore con quello dell’autore e dei personaggi. Sebbene il tono della pellicola sia privo di colpi di scena, non mancano alcuni momenti ironici utili a risaltare il male sottile (della protagonista) e l’ipocrisia (della società) senza mai ridicolizzare questi due poli contrapposti. L’ambiguità (immortalata nella statua del giano bifronte in salotto) è assorbita in modo totale dall’ambiente che racchiude i personaggi (che risultano essere sia vincitori che vinti).
Effi rimarrà imprigionata in questo marchingegno invisibile, alimentato dal volere altrui come dalle proprie pulsioni inespresse: la necessità di sentirsi libera e al tempo stesso di qualcuno la fa soffocare. Allo spettatore salta subito all’occhio il rigore formale della fotografia in bianco e nero (di Dietrich Lohmann e di Jurgen Jurges) volutamente scelta per sottolineare una certa freddezza e distacco avvertito durante il film, osserva inoltre, i gesti compiuti in rituali sileziosi dagli attori e ascolta i dialoghi molto spesso da lontano: da dietro una tenda nella camera da letto, una vetrata che affaccia sul giardino, da dietro una fila di alberi spogli o dalla rete da pesca appesa a dei pali sulla spiaggia.
Fassbinder ha lasciato le convenzioni del romanzo così come erano, perché già in linea con il suo pensiero da rappresentare, in cui tutto è sottomesso al potere: dalle consuetudini sociali, alle scelte di vita, includendo eventuali implicazioni sentimentali. La vita di Effi è decisa da altri: dai genitori prima e dal marito poi. Il distacco temporale tra noi e la storia della giovane avviene in modo spontaneo perchè il senso di lontananza storico-culturale è nello spazio che separa la realtà del presente dalla mise en scène ottocentesca: non c’è bisogno d’altro per rivelare l’artificio narrativo avvenuto dalla pagina allo schermo. Alcuni espedienti tecnici per la rielaborazione del testo ci sono e il lettore attento non vedrà qui rappresentato il fedele cane Rollo (lo sentirà menzionato nei discorsi) come si accorgerà che i capitoli dedicati alla rielaborazione dell’offesa ricevuta da parte del marito (e del conseguente duello) vengono compressi in poche scene essenziali (montate in parallelo).
Sotto al titolo “Fontane Effi Briest” compare la seguente didascalia: “Ovvero, molti che intuiscono le proprie possibilità e i propri bisogni nondimeno accettano l’ordine prevalente nella loro mente tramite le loro azioni, e in questo modo lo rafforzano e lo confermano totalmente”
EFFI, UNA FIGLIA DELL’ARIA
Nelle prime sequenze si vede Effi (interpretata da Hanna Schygulla, musa di Fassbinder che compare in molti suoi lavori) sull’altalena che oscilla metaforicamente tra lo stato di dipendenza dagli eventi che di lì a poco dovrà vivere. Il movimento è transizione che la separa dal microcosmo familiare (in cui fino a ora si è sentita protetta e viziata) per essere proiettata verso un futuro fatto di vita matrimoniale con un uomo che non conosce e in un posto in cui non è mai stata. “Avresti dovuto fare l’acrobata” le dice la madre (Lilo Pempeit, madre del regista) l’unica a conoscere la natura mutevole della figlia e in cui rivede la se stessa di una volta. Le due donne si completano, in un gioco speculare che proietta il passato sul presente e che delinea i loro caratteri: Effi è tanto passionale e affettuosa quanto l’altra è composta.
La figlia “prende il posto” che sarebbe spettato alla madre anni prima, sposando un ex-pretendente di quest’ultima: il barone Geert von Instetten (Wolfgang Schenck) presidente distrettuale di Kessin (in Pomerania). “Effi vieni”: il richiamo fuori campo delle amiche, rimaste in giardino, entra nella stanza per arrivare alla destinataria che di lì a poco si fidanzerà ed iniziarà la nuova esistenza da adulta. Nonostante Instetten sia più anziano di lei (Effi ha 17 anni, lui 38) racconta alla madre e alle amiche che è quello giusto, autoconvincendosi che le virtù di rispettabilità e status del futuro marito possano soddisfare le ambizioni della giovane di fare breccia nei salotti della buona società. I dubbi della madre su quest’unione “poco assortita” sono allontanati dai preparativi per le nozze e successivo trasferimento.
L’attenzione costante di Fassbinder al mondo femminile è qui focalizzato sul rapporto madre-figlia: le due donne condividono spesso la stessa scena in cui le loro azioni e pensieri sono come “dei doppi” racchiusi in una cornice, mentre il riflesso delle figure è ampliato in prospettiva grazie a uno specchio che troviamo sullo sfondo del set. Lo sguardo della camera fissa si posa su movimenti appena accennati: i pensieri della madre mentre ricama sono rivolti alla figlia (seduta davanti al pianoforte) rivelandone la vera natura: “Le piacevano solo le cose più eleganti e quando non poteva avere il meglio, rinunciava alla seconda scelta perché a quel punto non aveva nessun valore”. (Effi Briest, Theodor Fontane edizioni Mondadori).
La madre sa che Effi non è davvero interessata all’amore, ne parla soltanto perché ha letto da qualche parte che è il sentimento più nobile, più bello e meraviglioso. Per la giovane protagonista tutto è una fiaba, una fantasticheria e reverie romantica ma una volta trasferita a Kessin si sentirà presto ferita: Instetten non è capace di riservarle gli stimoli e distrazioni quotidiane di cui ha bisogno. Il luogo isolato e privo di mondanità unito alle rare relazioni sociali (per lo più aride e ipocrite) non aiutano Effi a superare il distacco dalla casa dei suoi né ad accettare la nuova vita fatta di abitudini decise dal marito. Tra solitudine (Instetten è quasi sempre in viaggio di lavoro) e malinconia, la giovane inizia a non dormire la notte a causa di “quei passi” che sente provenire dal piano di sopra.
Le domestiche parlano di “spiriti” e le raccontano “storie di fantasmi” a cui Effi crede fin da subito ma una volta insieme al marito vorrà sentire da lui la verità: l’uomo, dopo averle fatto conoscere la “storia del cinese”, le mostrerà il luogo dove è sepolto. Ciononostante, Effi continua ad essere vittima della propria immaginazione ed incapace di allontanare le proprie paure, le plasma in ombre a cui non sa dare nome. Instetten critica questo timore infantile della moglie e rimane sorpreso di scoprire in lei, una Briest, un’ostilità infondata tipica delle famiglie piccolo-borghesi: “I fantasmi sono considerati un privilegio (come gli alberi genealogici) delle famiglie nobili”. Nella controrisposta di Effi non c’è nessun aristocratico orgoglio all’idea di avere un fantasma, perché lei stessa attribuisce un valore maggiore allo stemma.
La solitaria routine di Effi si spezza quando trova delle persone con cui parlare e trascorrere un po’ di tempo. Come il farmacista Gieshubler, un uomo che avrebbe combattuto e sarebbe morto per lei (da buon cavaliere che rispetti i canoni dell’amor cortese) ed Effi ne è grata perché si occupa di lei “come una divina provvidenza in tono minore”. Le attenzioni da parte “dell’alchimista” Gieshubler prima e soprattutto del maggiore Crampas poi, le fanno capire ciò che manca nel suo matrimonio: tutte le galanterie, stimoli e riguardi che riceve da loro e non dal marito la fanno soffrire. Il carattere instabile di Effi si fa ora più marcato: passa da uno stato di malinconia all’euforia, rivelando tutta la nostalgia nella corrispondenza con la madre. Le scrive che vorrebbe essere più serena, calma e forte come quando sente la Trippelli cantare durante una serata che ha organizzato.
Saranno un paio di incontri fortuiti che daranno alla protagonista la sicurezza e conforto che cercava: il primo con Roswitha con cui scambia qualche parola un giorno, al cimitero. Sente a pelle che è buona e fedele e nonostante il suo essere pratica e diretta le ispira fiducia, decidendo di prenderla con sé come domestica e balia per la bambina che nascerà. Effi (che è protestante) vede nella cattolica Roswitha una “protezione” per i fantasmi notturni. Il secondo incontro è con l’ex compagno d’armi del marito, il maggiore Crampas invitato a pranzo da loro: la convergenza di idee ed interessi tra lui ed Effi li spingerà a trascorrere sempre più tempo insieme. I loro rendez-vous avvengono in esterno (spiaggia, bosco, giardino) rompendo così con la scenografia ristretta all’ambiente domestico. Crampas è sposato con una donna (la cui gelosia ci viene descritta nei dialoghi) ma Effi si fida di lui e gli confessa la paura per la storia del fantasta. Il maggiore la rassicura, svelandole che questo è solamente uno “strumento educativo” creato dal marito per controllarla meglio durante la sua assenza. Infatti Instetten per esercitare al meglio il suo potere di maestro, padrone e protettore, fa leva sulla facile impressionabilità della moglie per tenerla d’occhio e condizionarla.
Ma le gelosie da lui temute si concretizzano: Crampas e Effi vivono una breve storia d’amore, in cui sono ancora una volta i dialoghi a predominare. In Effi Briest, le parole sono più importanti delle azioni e il raccontare storie di fantasmi diventa l’unico modo per dare voce ai propri desideri e paure, sostituendo la prima persona con delle ombre inconstistenti. Crampas esorcizza le paure di Effi e al tempo stesso la affascina: nella leggenda de “Il Cavaliere di Calatrava” che le narra, (oltre ad esserci un parallelo di “spiriti”) c’è soprattutto la sottile allusione all’amore per una donna sposata. Mentre nel racconto della protagonista: “Il muro di Dio” c’è sia il bisogno di essere protetta dall’ignoto che proviene dall’esterno come la propria dipendenza da qualcuno. Effi non ama la ripetizione e per quanto provi passioni intense sono tutte momentanee, senza continuità.
In molte scene la giovane si specchia ma si tratta di una Vanitas apparente perché spesso i suoi occhi fissano un punto lontano dalla propria immagine: per sconfiggere la sua “paura della paura” (citando una delle opere fassbinderiane) deve definirsi con e nell’altro. Lo specchio presente nel campo d’azione di Effi è lo strumento essenziale per trovare la propria identità nell’altro ma anche un’eco che riflette i suoi tormenti, proiettandoli all’esterno sotto forma di ombre. Nella scena in cui passeggia da sola, il giorno prima del tanto atteso traferimento a Berlino, ascoltiamo i suoi pensieri fatti di confusione ed incertezza: in bilico tra l’amarezza per la breve felicità perduta e il senso di colpa per aver macchiato il suo matrimonio.
Effi è spaventata perché il tradimento non le pesa sulla coscienza, il pentimento e la vergogna che prova sono rivolti alla paura che “si venga a sapere”: il timore di dover mentire ed ingannare se stessa e gli altri le sembra insostenibile. Le pressioni sociali e convenzioni del suo ambiente la spingono ad accantonare l’orgoglio e l’impulsività in favore di una profonda maliconia e quieta stoicità: Effi non perde mai la dignità neanche quando ripudiata dal marito rimarrà completamente sola. Fassbinder (e Fontane) non dicono la loro sulle situazioni che si creano, né giudicano la protagonista, limitandosi a mostrare ciò che succede nel suo microcosmo.
La corrispondenza è uno degli elementi fondamentali nella narrazione: quella di Effi con la madre non interrompe il loro legame nonostante la lontananza ma crea un continuum spazio-temporale fatto di vicinanza affettiva; mentre quella con Crampas (dopo la loro storia) le offre, in un primo momento, un conforto nel ricordo, per poi interrompersi e diventare la causa della rottura dell’equilibrio raggiunto nella nuova vita berlinese. Le lettere di Crampas “vengono alla luce” per caso, dopo sei anni: Instetten le legge ma non prova odio o sete di vendetta perché ama ancora Effi e sarebbe pronto a perdonarla se non fosse per la propria totale sottomissione al culto dell’onore. La stagione primaverile contrasta con lo stato d’animo dell’uomo: sente di dover offuscare del tutto ciò che gli sta intorno perché sfuggito al proprio controllo. Il tempo passato diventa, per il marito ingannato e offeso, un confine da cancellare ad ogni costo: l’unica soluzione è sfidare a duello colui che considerava amico, ponendo così la parola fine con le proprie mani.
Ad Effi rimane una vita nell’ombra in quanto colpevole: il mondo in cui ha sempre vissuto le sarà precluso per sempre e da questa crisi dovrà iniziare a prendersi cura di sé. Dopo qualche anno avviene (per gentile concessione del marito) il tanto desiderato incontro con la figlia Annie e ancora una volta sono le parole a dominare, a negare un contatto fisico. Le idee che Effi-madre propone ad Annie (alludendo alla possibilità di incontri futuri) vengono troncate dal continuo: “se mi lasciano”. L’incomunicabilità satura l’aria dellla stanza, creando una vertigine e noi ne siamo allontanati tramite l’utilizzo dello zoom all’indietro. Instetten ha plasmato la figlia sotto il segno della disciplina e tradizione per contrastare con l’influenza “immorale” della madre. Nella scena successiva, la nostra protagonista è incorniciata dalla ringhiera delle scale: il suo monologo-confessione serve a svuotarla di ogni emozione mentre il suono ripetuto della parola “onore” si unisce al profilo in primo piano, estraendole un’idea pura, di consapevolezza della propria situazione. “ Mi disgusta quello che ho fatto, ma quello che più mi disgusta è la vostra virtù. Sono costretta a vivere, ma non potrà durare in eterno”.
LA SIMMETRIA DELLE OMBRE
L’insofferenza nervosa mette in evidenza le avvisaglie della tisi che avevano colpito Effi prima del suo ritorno a casa. Ritroviamo, nella parte finale, una perfetta circolarità narrativa: nel rinnovato invito dell’incipit: “Effi, vieni” (adesso nel telegramma della madre) come nell’immagine in movimento dell’altalena.
Dopo gli eventi e il tempo trascorso ogni cosa assume un altro significato, ma è come se Effi fosse ancora quella figlia dell’aria che avevamo conosciuto. “Si perfezionò nell’arte di osservare in silenzio e con entusiasmo la natura, si sentiva bene e poteva restare a guardare per ore, dimenticando quanto la vita le aveva rifiutato, o meglio, quanto aveva rubato a se stessa”.
Tutto, in casa Briest è geometria: le aiuole tonde, i vecchi platani e lo stagno nel giardino, il campanile della cittadina di Hohen-Cremmen, il muro del cimitero e la facciata della casa in parallelo. Ritroviamo una simmetria anche tra la descrizione iniziale nel libro e le prime immagini del film. Ma ancor prima che compaiano i personaggi è l’ombra la vera protagonista della scena, presenza sottile che non abbandonerà mai Effi durante l’intero arco narrativo. La sua è una muta traiettoria che scivola lenta sugli oggetti nello spazio, segnandone un confine invisibile e percepibile solamente attraverso le proprie paure. Quiete apparente che a primo impatto sembra ferma nel rigore formale (e bressoniano) della fotografia in bianco e nero ma si tratta in realtà di un’armonia mai ferma perchè spezzata dall’oscillare della protagonista e dalle risate con le amiche.
Eppure ogni gesto sembra bloccato, chiuso, forzato nel contatto visivo con il nido rassicurante di questa famiglia di nobili origini nella Prussia di fine ‘800. Ma l’ordine statificato dalla successione generazionale è in realtà inclinato come quei pali che sostengono l’altalena o nello scintillio della ri-verniciatura dorata del segnavento. Fassbinder registra con precisione, sussurrando, lo scandire della vita di Effi Briest, gratta via la facciata dell’indolenza dei modi, della fissità delle sculture o degli sguardi che non si incontrano neanche sulla superficie di uno specchio. Le esistenze come ombre sottili che sfuggono all’improvviso, perché diventate “troppo vaste”.
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