Seconds, un incubo senza via di fuga

Seconds, un incubo senza via di fuga

March 28, 2017 0 By Simone Tarditi

Se sei ricco e hai abbastanza soldi, puoi inscenare la tua morte, sottoporti ad un’operazione chirurgica facciale e muscolare, cambiare aspetto ed iniziare una nuova vita. Spinto da un’inaspettata telefonata dall’amico del cuore sparito da tempo, Arthur Hamilton (John Randolph) si sottopone a questo trattamento e rinasce, ringiovanendo, come Antiochus “Tony” Wilson (Rock Hudson), programmato per essere un pittore di Malibu all’interno di una comunità di altri “rinati”.

Seconds, tratto dal romanzo di David Ely, è un incubo senza via d’uscita come raramente il cinema hollywoodiano è stato in grado di creare. Lo stesso anno d’uscita segna precocemente uno spartiacque all’interno dell’industria cinematografica americana: il 1966 è l’anno in cui iniziano a ribollire ansie e agitazioni creative che l’anno successivo porteranno all’inizio dell’Era della New Hollywood, una breve isola felice in grado di scuotere a fondo le modalità di fare film da quel momento in avanti.

Alla regia di Seconds c’è John Frankenheimer (The Manchurian Candidate, Birdman of Alcatraz, Ronin), le cui influenze della cinematografia europea -soprattutto francese- sono qui ben visibili (dalle molte sequenze con camera a mano alle inquadrature che volutamente schiacciano, comprimono e deformano contorni e personaggi in situazioni alienanti), e al suo fianco, dietro la cinepresa, c’è James Wong Howe, un cinese emigrato da bambino negli Stati Uniti che poco più che ventenne inizia la sua carriera come assistente alla regia e direttore della fotografia per film muti di registi come Victor Fleming o Cecil B. DeMille e che per i successivi cinquant’anni lavora con i nomi più grossi a Hollywood. La conoscenze acquisite negli anni ’20, quando il cinema è ancora solamente “immagine” e in quanto tale deve trasmettere il pathos che la “parola” non può ancora comunicare, non vengono da lui dimenticate nell’atto della transizione al sonoro e in Seconds non sono solo elemento accessorio, ma costituente fondamentale di un linguaggio più visivo e visuale piuttosto che verbale e “parlato”: proprio come in un incubo, le cui sensazioni e i ricordi sono quasi esclusivamente legati alle immagini che di esso permangono al risveglio.

In Seconds, questa sinergia tra John Frankenheimer e James Wong Howe sancisce uno dei momenti chiave nella fase di tramonto della cinematografia “classica” americana e l’utilizzo di un divo come Rock Hudson, celebre fino a quel momento per le sue commedie romantiche con Doris Day o per i film drammatici di Douglas Sirk, costituisce allo stesso tempo un cortocircuito e un ribaltamento della concezione dell’attore, che smette di sovrapporsi al suo personaggio, per venire totalmente e letteralmente annientato dal ruolo che interpreta.

I labirintici corridoi della clinica, gli anfratti metropolitani, le spiagge deserte, le ville popolate da altri “rinati”, le foreste in cui si celebra il passare del tempo con riti pseudo-orgiastici, sono tutti luoghi attraversati dal protagonista in una condizione di completo spaesamento. Antiochus non riconosce neanche se stesso perché non solo ha cambiato fattezze, ma non è rimasto alcun punto fermo della sua vita precedente. Non è stato riprogrammato o riconfigurato come si può fare con un computer o un robot, la sua vita è stata semplicemente riscritta da capo ed è stato lui stesso a permetterlo. La sua nuova professione è stata decisa da altri, le persone che lo circondano vivono anch’essi in una condizione analoga alla sua, ma sembrano adattarsi meglio ad essa, e quando in preda all’alcol cerca di grattare sulla superficie di quella sua nuova esistenza fatta di diplomi contraffatti e conoscenze fasulle, gli viene fatto capire dietro minacce che non può minare quell’equilibrio così artificialmente creato.

Non c’è un secondo avvertimento dopo che Antiochus prova a riaffacciarsi sulla sua vita precedente e la scelta che deciderà di operare, comporterà l’uscita da quell’incubo nell’unico modo che gli verrà concesso: incanalato dentro il reiteramento di una procedura già sperimentata e investito dalla bianca luce eterna.

Seppur con modalità narrative differenti, nel 1971 il Johnny Got his Gun di Dalton Trumbo (il cui omonimo romanzo è stato scritto proprio dallo sceneggiatore sul finire degli anni ’30) si avvicina spaventosamente al Seconds di John Frankenheimer. Si tratta di due vicende molto lontane tra loro, ma fino a un certo punto. Il Joe / Johnny uscito dalla penna di Trumbo è un giovane spedito in guerra come carne da macello, che finisce col perdere braccia, gambe, udito, vista, parola. Un tronco umano senziente in grado ancora di percepire il mondo intorno a sé, ma incapace (almeno all’inizio) di comunicare con l’esterno. Tutt’altra storia rispetto a quella di Antiochus, ma c’è un punto di contatto tra i due: entrambi sono prigionieri del loro corpo e l’unica via d’uscita per fuggire alla condizione in cui sono precipitati è la morte, sia essa auspicata o raggiunta per errore.

I chirurghi, moderne figure sacerdotali, operano all’interno di stanze in cui lo spazio si configura come claustrofobico e solenne, al pari dell’interno di un tempio, e qui decidono della vita e del futuro di chi è nelle loro mani. Nello stesso luogo in cui nell’arco dell’ultimo secolo, per definizione, vengono messi al mondo gli individui con il parto, li si conduce anche all’altro mondo o ad una nuova esistenza in cui essi non vogliono o non possono riconoscersi. In Seconds, questo destino è, sì, operato da altri, ma ad esso ci si abbandona come creature votate ad un consapevole sacrificio. La struttura-corpo è qualcosa che si può facilmente sostituire: la cartilagine, gli zigomi, i muscoli tendinei, la spina dorsale, i bulbi oculari, la dentatura, la carne (scelta simbolica quella di far camminare il protagonista attraverso un impianto d’imballaggio di buoi e altri mammiferi prima di essere spediti in qualche macelleria). Qui tutto può essere esportato, corretto, modificato, subire nuovi impianti. Il corpo umano, carcassa e crisalide allo stesso tempo, ha l’unico scopo di contenere gli organi, compatti e funzionanti. Al risveglio, il paziente non può e non deve riconoscersi perché ha scelto di diventare un altro, ma non sa con che sembianze si osserverà allo specchio della vita. Non è rimasto niente di quello che era, non i capelli, non la postura, non lo sguardo, se non la mente, avviluppata su se stessa e che faticosamente fa i conti con quello che si trova davanti.

Nessuna via di fuga.

Simone Tarditi