
Abbracciare il lato oscuro di Christine
May 16, 2017Il discorso sui due progetti cinematografici attorno alla figura realmente esistita di Christine Chubbuck è stato interrotto verso la fine di novembre 2016 nel corso della trentaquattresima edizione del Torino Film Festival. Durante la kermesse nel capoluogo piemontese è stato recuperato il docu-drama Kate plays Christine, ma non la sua “controparte” Christine. Con l’uscita in home video di quest’ultimo titolo, vero e proprio film sulla giornalista (magistrale l’interpretazione di Rebecca Hall) suicidatasi in diretta nel 1974, è giunto il momento di concludere la riflessione su questi due lavori diversissimi e sui dubbi irrisolvibili che lasciano ancora aperti.
Christine Chubbuck ha ventinove anni, lavora come reporter per una piccola emittente televisiva in Florida, ma la sua vita è incompleta: vorrebbe un marito, vorrebbe una famiglia, un sogno come tanti, ma all’apparenza irraggiungibile. In seguito ad un cocktail di delusioni sentimentali, lavorative ed esistenziali, il 15 luglio del 1974 decide di spararsi un colpo dietro la luna durante una diretta televisiva. Una storia vera.
Christine riesce a inforcare con successo due vie: quella di riuscire a parlare acriticamente della Chubbuck senza tentare di dare spiegazioni definitive circa la sua depressione e conseguente suicidio (un atto estremo che si può non condividere, ma che allo stesso bisogna sforzarsi di rispettare perché non si possono mai comprendere fino in fondo il malessere e le ragioni per le quali si decide di farla finita con la vita) e di disseminare interrogativi su cosa sia moralmente giusto mostrare sullo schermo.
Già assimilato ampiamente nel recente Nightcrawler – Lo Sciacallo non nelle sue teorizzazioni, ma nella sua feroce programmazione, il problema su cosa sia giusto vedere in tv e, ancora prima, cosa sia lecito far vedere agli spettatori viene sfiorato anche in Christine. Post Guerra Fredda, post ’68, post Watergate e post Vietnam, il 1974 -anno in cui si svolge il film e in cui si suicida la Chubbuck- è sintomatico di cambiamenti in America e sui televisori di ogni abitazione stanno comparendo da qualche tempo immagini che mai prima sono entrate nell’ambiente domestico: bonzi in fiamme, villaggi sotto una pioggia di napalm, studenti bastonati e via discorrendo. D’un tratto, la violenza visionata non è più solo quella della finzione cinematografica.
Come in una qualsiasi competizione con vincitori e perdenti, anche la corsa agli ascolti diventa un’ossessione per i dirigenti delle emittenti televisive. Si lotta per sopravvivere e non chiudere i battenti. Ecco che la morbosa fame degli spettatori per sangue e morte (incidenti stradali, omicidi, esplosioni, sparatorie) si fa sempre più insaziabile e storie formative e positive (come quelle che vorrebbe raccontare la Chubbuck) perdono d’interesse.
Anche nella stazione tv dove lavora la giornalista inizia a farsi strada il timore che il capo generale spenga l’interruttore a causa di ascolti via via più bassi e, superata una ritrosia iniziale, si cominciano a trasmettere servizi dai toni tragici, ma capaci di tenere il pubblico incollato allo schermo. Perfino Christine, che nel tempo libero fa volontariato in un ospedale per bambini ammalati, finisce schiacciata da questi meccanismi e inizia a concepire servizi (irrealizzati) che corrispondano ai diktat che arrivano dall’alto. Forse l’ultima scelta infelice prima di dire addio a questo mondo.
Le sfumature monocromatiche della personalità della giornalista assumono un senso maggiore sullo sfondo di un’America in balia della paranoia e dello smarrimento. Christine Chubbuck non fa altro che lavorare ed è incapace di rilassarsi o di godersi qualche momento. È sempre attenta a cosa la gente può pensare di lei e spesso finisce col creare ansie che non hanno un corrispettivo reale. Il merito maggiore di un film come Christine è proprio quello di riuscire a dire tanto sulla protagonista utilizzando pochi elementi: la cameretta in cui vive, per esempio, non solo è arredata come quella di una bambina, ma tutto è decisamente troppo piccolo e sproporzionato per una donna di quasi trent’anni. Una scelta scenografica efficace e suggestiva. Nel corso degli anni (e lei ne ha quasi trenta) è cresciuta, ma non è stata in grado di adattarsi completamente al mondo degli adulti. O non ci è riuscita o non l’ha voluto, la sostanza non cambia: la Chubbuck è imprigionata nella sua vita e non sa uscirne.
Christine si fa filmare da uno dei cameraman per poi riguardarsi e studiarsi, compila centinaia di liste di cose da fare e solo una parte di esse viene portata a termine, cerca nel buio della notte e della sua anima un’idea vincente che possa farla salire di livello all’interno della gerarchia maschile del suo luogo di lavoro, ma soprattutto decide di farsi divorare dai timori e dalla paranoia: compra un’arma da fuoco, quella con cui si toglierà la vita, senza forse neanche realizzare così pienamente quello che sta facendo.
Tutta la fragilità del personaggio viene mostrata nella sequenza più infelicemente felice di tutto il film: la protagonista viene invitata a quello che pensa essere un primo appuntamento, si veste bene, è agitata, cerca conferme nella sua immagine riflessa nello schermo, è bellissima e in gamba e non riesce a convincersene, ma proprio quando non spera altro che essere baciata dal suo collega, tanto da spostare i lunghi capelli dal lato opposto del collo come fosse un invito ad avvicinarsi a lei che è pronta a concedersi, lui la porta ad una terapia di gruppo, convinto che non possa farle che bene. Invece che fuggire via, lei accetta e inizia una conversazione con una ragazza che non ha mai visto e lì si mette a nudo: ammette di essere ancora vergine, di esserlo perché non ha trovato quello giusto, di avere un grosso problema che potrebbe impedirle di avere figli e, quindi, una famiglia in futuro. La sconosciuta che ha di fronte non la conforta, ma prova a darle consigli su cosa fare, che è un po’ quello che fanno tutti con Christine: danno consigli di vita che lei ascolta, ma non vuole applicare perché ha un suo modo di fare le cose e non è un modo sbagliato, ma di sicuro non la fa stare meglio.
La tragedia è inevitabile, annunciata, è il motivo stesso per cui Christine Chubbuck viene ricordata ancora oggi, invece che essere stata dimenticata insieme a centinaia di migliaia di reporter di tutto il mondo. Fosse ancora viva, si starebbe godendo la pensione, ma non è andata a finire così: la giornalista si è uccisa in diretta senza che nessuno avesse mai immaginato potesse arrivare a tanto. Ecco, un altro dei meriti maggiori di Christine è quello di aver affrontato l’atto del trapasso con delicatezza: la morte della protagonista avviene fuori campo, fuori spettro narrativo, giusto una frase in bocca ad un altro personaggio, quasi in silenzio. Più nessuna preoccupazione.
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