
Una conversazione con il regista Hirokazu Kore’eda
May 25, 2017Dopo aver presentato Ritratto di famiglia con tempesta (dal 25 maggio 2017 nelle sale italiane) nelle città di Milano e Roma, Hirokazu Kore’eda ha concluso presso il Cinema Massimo di Torino il tour promozionale organizzato dalla Tucker Film.
In perfetta sintonia con il titolo dell’ultimo lungometraggio del regista giapponese, il cielo torinese è plumbeo e le nuvole sono cariche di pioggia. Simone ha appuntamento con Kore’eda prima della proiezione ed è l’occasione per parlare non solo del film che sta per venire mostrato ad una sala gremita di cinefili, ma anche per cercare di scoprire qualcosa di più riguardo ai suoi precedenti progetti cinematografici.
La conversazione spazia dal rapporto coi genitori (tema principe di tutta la filmografia del regista) fino ai Fratelli Taviani, passando per i Joy Division, Hou Hsiao-hsien, Kaneto Shindō, Singin’ in the Rain, l’11 settembre, palloncini rossi, i manga e molto altro.
Il protagonista di “Ritratto di Famiglia con Tempesta” si chiede cosa i suoi genitori volessero dalla vita, quali fossero i loro sogni, cosa pensassero, che idea avessero del mondo. Tu stesso ti sei ritrovato a riflettere su tutto ciò?
Sì, spesso mi sono soffermato a pensare ai miei genitori fin dall’inizio della stesura della sceneggiatura. Nel film c’è una scena in cui il protagonista rimesta all’interno di una ciotola in cui c’è dell’incenso non bruciato e lui prende con dei bastoncini questi pezzi d’incenso. Questo è un episodio che mi è successo davvero e mi ha ricordato anche l’atto che avviene nei forni crematori. In Giappone c’è un rito che consiste nel prendere le ceneri della persona cremata e di metterle in un’urna, è quello che ho fatto quando è morto mio padre. Questa è stata un’immagine a cui ho ripensato molto ed è stato il primo spunto per la mia sceneggiatura, dopodiché ho preso altri episodi dalla mia vita per costruire un collage in modo tale che tutti questi elementi insieme potessero avere un senso per la storia che volevo raccontare.
Pensi che un figlio possa mai recidere del tutto il cordone ombelicale metaforico nei confronti dei suoi genitori?
Sempre partendo dalla mia esperienza di vita, posso dire che sono due i momenti in cui questo cordone ombelicale possa essere tagliato del tutto. Il primo è quando si diventa genitori e il secondo è quando si perdono i genitori. Detto ciò, non vuol dire che il rapporto con i genitori si annulli o che venga interrotto.
In “Like Father, Like Son” e “Our Little Sister” vengono alla luce due concetti molto importanti e vicini: i figli non devono essere costretti a commettere gli stessi errori dei genitori e le colpe dei genitori non devono ricadere sulla vita dei figli. Essere diventato padre ti ha fatto capire qualcosa di più non solo su di te, ma anche sui tuoi genitori?
Sì, quando è venuto a mancare mio padre e poi io, a mia volta, sono diventato padre, il mio cordone ombelicale con lui si è rafforzato: ho cominciato a vedere ciò che fino a quel momento, cioè l’avere avuto una figlia, non ero riuscito a vedere perché non ero ancora diventato un genitore. Si è creata così una connessione molto forte.
In “Still Walking” la madre del protagonista identifica farfalle e falene come spiriti delle persone morte. Puoi spiegare meglio il motivo d’inserire questo elemento nel film e se è qualcosa che hai preso in prestito sempre dalla tua esperienza di vita?
Mia madre mi diceva che, quando vedeva volare delle farfalle gialle, quello era mio padre che era ritornato. Quindi sì, anche questo si basa su un aspetto della mia vita. Comunque, alcuni spettatori asiatici che hanno visto il film mi hanno detto che per loro la farfalla può rappresentare l’idea della rinascita di un defunto e quindi ho iniziato a pensare che non fosse solo un pensiero che aveva mia madre, ma qualcosa di riconosciuto in tutta l’Asia.
Sempre in “Still Walking” s’intravede nella stanza del figlio morto un poster dei Joy Division. Il collegamento più immediato che viene in mente è quello con Ian Curtis, il cantante della band che si è tolto la vita a soli ventitré anni, un po’ come a dire che il destino di una morte giovane era già segnato. Vorrei sapere da te se dietro a questa scelta c’è qualche ragione in più e se sei legato alla musica dei Joy Division.
No, non sono appassionato di quella band. L’idea d’inserire quel poster nella cameretta del figlio è stata proposta da una persona che si è occupata della scenografia dopo che era venuta a conoscenza della tragica storia del cantante.
In “Ritratto di Famiglia con Tempesta” viene proposto al protagonista di scrivere la storia di un manga, ma lui non sembra particolarmente entusiasta di questa idea. Tu invece hai realizzato film tratti da manga come “Our Little Sister” o “Air Doll”, quando ti trovi ad adattare un manga per farci un film qual è il tuo modo di procedere?
Secondo me, quando si tratta di fare una trasposizione di un manga utilizzando attori in carne e ossa, se non si fa molta attenzione si possono ottenere pessimi risultati. Molti film tratti da manga sono stati davvero pessimi. Quando un attore si ritrova ad avere come base di partenza un personaggio del mondo dei fumetti, che quindi può anche essere sopra le righe, può finire lui stesso per recitare in maniera troppo caricata ed eccessiva. Tutto quanto diventa troppo esagerato. Pertanto, io cerco di far sì che l’attore entri in una dimensione che sia adatta ad una trasposizione cinematografica e maggiormente veritiera.
Nel negozio di video-noleggio in “Air Doll” compare la locandina di “Le Ballon Rouge”, film francese del 1956, e fuori dal negozio di uno dei due genitori di “Like Father, Like Son” c’è il graffito di un palloncino rosso. Ho letto che sei un grande amico del regista Hou Hsiao-hsien che nel 2007 ha realizzato un intero film attorno ad un palloncino rosso (“Flight of the Red Balloon”). Il tuo è un semplice omaggio ad un film e ad un amico o questo oggetto simboleggia qualcosa di più?
Per quanto riguarda Like Father, Like Son non è stata una scelta fatta coscientemente, mentre per quanto riguarda Air Doll il poster de Le Ballon Rouge è un collegamento con il film di Hou Hsiao-hsien, ma un palloncino è innanzitutto un oggetto pieno d’aria, proprio come la protagonista del mio film che è una bambola gonfiabile che prende vita.
Sempre in quel negozio di “Air Doll” compare anche in più di un’occasione la locandina di “Singin’ in the Rain” (Gene Kelly e Stanley Donen, 1952).
Tutti i poster che appaiono in Air Doll li ho messi perché hanno un significato con il tema del film. Singin’ in the Rain mi piace molto e ho voluto inserirlo perché si lega bene con la storia: nel musical c’è un’attrice che viene doppiata perché ha una brutta voce e in Air Doll ho voluto inserire questa idea che quella che sembrava una bambola vuota, la protagonista, avesse poi un cuore e una voce.
“Hana” è finora il tuo unico film storico. Nonostante lo sfondo sia quello del Giappone del periodo Edo con samurai e villaggi fatti di capanne, la storia avrebbe anche potuto essere narrata nel presente per via dell’universalità dei temi che tratta. Cosa ti ha spinto ad ambientare questo film proprio in quell’epoca?
Lo spunto iniziale è stato l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001. Quello è stato un episodio che ha fatto sì che ci fosse un grosso cambiamento all’interno di determinate dinamiche che poi si sono riflesse in tutto il mondo, compreso il Giappone che da quel momento ha sostenuto ancora più fortemente gli Stati Uniti. Non è stata una novità: il governo giapponese è sempre stato molto appiccicato a quello degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Quindi, per cercare di mantenere un certo tipo di senso di crisi, ho pensato di raccontare la storia di un personaggio che non vendica la morte del padre. All’interno di questo tipo di narrazione, il fatto di utilizzare un’epoca passata mi è sembrato interessante proprio per il concetto di conflitto e guerra all’interno dei clan del periodo Edo. Inoltre, era da tempo che volevo cimentarmi con un’opera storica.
Ho letto che da giovane avresti voluto fare lo scrittore a tempo pieno e ho notato che in alcuni tuoi lavori come “Ritratto di Famiglia con Tempesta” o il documentario “August Without Him” scrivere un libro assume un’importanza fondamentale per i protagonisti. Dopo aver fatto cinema per più di vent’anni, pensi mai di accantonare per qualche tempo il mestiere da regista e dedicarti a tempo indeterminato alla scrittura di un libro?
[Ride] No. Prima di fare film, lavoravo come assistente per produzioni televisive e tutti i giorni pensavo solo come smettere di fare quel lavoro. Invece, da quando ho girato il mio primo film, ormai ventidue anni fa, non ho mai pensato d’interrompere la mia carriera neanche per un istante.
Per quanto riguarda l’attività di fare cinema, hai mai pensato di realizzare un film privo di dialoghi e che racconti una storia solo per immagini? Un po’ come “The Naked Island” (1960) di Kaneto Shindō, per intenderci.
Oh, la scelta optata per The Naked Island è stata estremamente audace, ma è stata evidentemente presa a priori con grande attenzione in modo tale da sostentare questo tipo di narrazione solo per immagini e senza dialoghi. Personalmente, nei miei film faccio sempre in modo che ci sia una parte di film priva di battute. L’ho fatto in Nobody Knows e anche in Ritratto di Famiglia con Tempesta ci sono due minuti in cui c’è una totale assenza di dialoghi ed è stata la parte più divertente da montare. Tra l’altro, sempre riguardo a questo argomento, di recente ho avuto modo di vedere Padre padrone (1977) dei Fratelli Taviani e devo dire di aver trovato molto interessante l’interazione tra padre e figlio anche in quei momenti in cui i due personaggi non si parlano.
(Intervista al regista Hirokazu Kore’eda condotta da Simone Tarditi presso il Cinema Massimo di Torino in data 10 maggio 2017. Un ringraziamento particolare a Sabrina Baracetti e Ippolita Nigris di Tucker Film e Far East Film Festival e a Giuseppe Gervasio che ha fatto da interprete tra intervistatore e intervistato)
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