La parabola miseranda dei corpi: Visioni di Malick, Sorrentino e McQueen

La parabola miseranda dei corpi: Visioni di Malick, Sorrentino e McQueen

June 6, 2017 0 By Angelo Armandi

Il corpo come prigione, involucro plastico e incandescente che racchiude, ed intrappola, una coscienza in ebollizione. L’idea, la consapevolezza di essere gettati nel mondo senza alcuna ragione, alla ricerca di un senso. In pieno clima malickiano, dopo l’enormità di Song to Song, la riflessione sui corpi diventa necessaria, indispensabile.

Titta Di Girolamo e Brandon Sullivan sono tra le anime, sparse nel mondo, di cui il cinema ha concesso uno sguardo più profondo, più allegorico, sulla necessità di sfruttare il corpo come unica possibilità per esternare, e consapevolmente somatizzare, i dissidi che sbrindellano le coscienze. I registi responsabili della loro estrinsecazione hanno poetiche diametralmente opposte, ossessioni differenti, eppure il risultato è il medesimo: opere che non narrano, o narrano pochissimo, in cui la trama scarna serve per delineare un tracciato su cui impostare uno sguardo della macchina da presa che, non potendo sorpassare i corpi, li osserva intensamente, senza volersene distaccare, nella speranza di penetrare l’abisso dell’interiorità.

Il Titta Di Girolamo di Paolo Sorrentino, ne Le conseguenze dell’amore, e il Brandon Sullivan di Steve McQueen, in Shame, soffrono di una costante inettitudine, di respiro malickiano, che si traduce in un’angoscia, un senso di abbandono che non consente loro di crescere, e li costringe ad una dimensione di infantilità, impossibilitati a fronteggiare il mondo.

Le conseguenze dell’amore, sin dal titolo, ammette una sfera narrativa più accentuata, in cui si rivela, seppur enigmaticamente, ciò che anima i turbamenti di Titta Di Girolamo. Il film, il meno sorrentiniano nel senso della forma, è tra i più intimi (e sinceri, probabilmente) di Sorrentino, poiché si tratta di un Sorrentino in erba, ancora ingenuo, non contaminato dall’intrusione del roboante apparato tecnico, che qui ancora vive per servire il contenuto, e non è ancora esso stesso contenuto. E la forma, in questo film, è straordinaria: Titta Di Girolamo (Toni Servillo), elegantissimo, chiuso nell’apparenza del disprezzo ed impenetrabile ad ogni emozione, circondato da piani sequenza silenziosi, avvolti dal gelo della Svizzera, è costretto a svolgere incarichi per la mafia siciliana. Ogni settimana si droga, lo stesso giorno, e l’estasi lo avvolge, le endorfine liberate dal corpo lo graziano di un transitorio, agognato benessere, e la macchina da presa lo circuisce con acrobazie che sembrano esse stesse emanazioni della psiche alterata. Il rigore e il distacco dalla gente difendono il Titta interiore, bambino spaventato, che accoglie in sé, come elemento residuo di umanità, il ricordo di un’antica amicizia, di cui non rimane più nulla, ma che preserva dall’oblio per aggrapparsi ancora alla bellezza del mondo.

Brandon Sullivan, dal corpo splendido ed infuocato di Michael Fassbender, è afflitto da un disturbo d’ansia fittissimo, generato in un tempo remoto nella coscienza, di cui non interessano le cause, o il contesto, o le giustificazioni, bensì gli effetti sul presente: le ansie sono cresciute, incontrollate, in una forma talmente strutturata e poderosa da essere diventate barriera inaccessibile, e l’unico modo per preservare la mente dall’implosione (il cervello è affascinante, un grandissimo amico, un’arma letale, il nostro nemico più temibile) è sfruttare il corpo per l’ipersessualità (la grande nevrosi del nostro tempo). Pornografia, sesso sfrenato, sesso in pubblico, masturbazioni frenetiche, uomini, donne, senza alcuna discriminazione: non conta il corpo, non conta neanche il sesso, quanto il coito per placare le potentissime ansie.

Shame non ha alcun elemento di narrazione, sin dal titolo; è uno stato d’animo, un dato di fatto, che vive di un presente gnomico che non subisce inflessioni. La vergogna è ciò di cui si nutre Brandon, e noi spettatori assieme a lui, sottoposti alla visione di sequenze paratattiche dai colori slavati, acquosi, desaturati, al pari dell’occhio di Brandon sulla propria coscienza obnubilata. Ancora i silenzi, talvolta insostenibili, a comunicare l’impossibilità di evadere dalla condizione attuale.

In entrambe le opere, i corpi sono negazione del sé, recano piuttosto l’apparenza dell’opposto del sé. Per Brandon e Titta, l’incontro con l’amore costringe al disvelamento, ad illuminare quegli anfratti della mente tenuti accuratamente nell’ombra, e li conduce, finalmente, alla vulnerabilità. Titta, dopo l’amore, trova il coraggio di essere sé stesso. L’ottimismo di Sorrentino, la sua speranza nella bellezza, si traducono nell’atto liberatorio con cui Titta si concede alla morte, evento catartico con cui porre fine alla prigionia del corpo e al suo dominio sull’anima.

L’incontro con l’amore conduce invece Brandon, tanto all’inizio di una relazione quanto nel rapporto con la sorella, all’ammissione della vergogna, alla reale portata dell’alienazione che si è impadronita di lui negli anni. Steve McQueen, fedele ad un approccio di negazione della narrazione, in cui seminare dubbi e non fornire risposte, quanto piuttosto dispensare ulteriori, conflittuali interrogativi, non si allontana dalla dimensione del presente e pone fine all’opera con una brutale cesura, in un’atmosfera di sospensione, di incertezza, lasciandoci col timore della circolarità degli eventi, dell’idea che il corpo abbia ancora il sopravvento sul piccolo Brandon interiore.

Allora, sopra tutti, svetta Terrence Malick, che in Song to Song propone una nuova idea di cinema, a metà tra il documentario e il videoclip, che esplora ed allarga gli orizzonti del mezzo, nuovo vertice del romanzo filosofico-esistenzialista-poetico raccontato dal regista. La narrazione è scardinata, segmentata da un montaggio brutale, in cui l’occhio della camera segue con insofferenza pezzi di mondo, esagitato come un bambino (ancora) che si meraviglia dell’immensità del mondo e abbia l’impellenza di conoscerlo, soffermandosi subito e subito stancandosi, rincorrendo altro, chissà cosa, non ancora consapevole della ricerca di un senso più profondo. Personaggi come burattini plastificati popolano il mondo, non lo comprendono, giocano per esorcizzare l’inettitudine, ballano, si sfiorano e mai si toccano, sussurrano inezie fuori campo, si detestano, ignoti a sé stessi e gettati nella realtà, che assalgono di domande.

In Malick, come sintesi estrema della potenza dei corpi, la forma diventa corazza, salvezza, preservazione, e si nutre della contemplazione di una bellezza artificiosa, tripudio di luci stroboscopiche e grandangoli, e pezzi di vita millimetrici concessi alla visione, come frammenti di sguardi che sono frammenti di anime, lacerate in montaggi paralleli e minutissimi piani sequenza. Intanto, mentre si dipana la loro parabola, riusciamo forse ad identificarci in quella miseria, che è la miseria del nostro tempo.

Angelo Armandi