Gianfranco Rosi, regista del Vero: Fuocoammare e Sacro GRA

Gianfranco Rosi, regista del Vero: Fuocoammare e Sacro GRA

June 20, 2017 0 By Simone Tarditi

FUOCOAMMARE: SONO NATO E SONO MORTO IN OGNI PAESE

di Simone Tarditi

LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO IN TEMPO DI CRISI

Sei morto. Sei un morto che galleggia. Stai a galla, ma stai morendo. Qui nessuno vuole che tu viva. Qui nessuno vuole che tu ce la faccia a compiere la traversata. È meglio se arrivi già morto così possiamo liberarci più facilmente di te. È meglio che tu muoia affogato in mezzo al mare, mangime per i pesci, un peso morto sul fondo del Mediterraneo. Qui non c’è spazio per te, c’è a malapena spazio per noi. È colpa tua se non c’è lavoro perché ce lo rubi. È colpa tua se c’è violenza. È colpa tua se questo paese non ci aiuta. Prima noi e poi, se rimane qualche briciola, tu. Prima gli italiani. Stai pur certo che te la faremo pagare. Non vogliamo rinunciare a niente per te. Abbiamo così poco che non possiamo darti nulla. Gira al largo. Se ci fosse ancora Lui le cose andrebbero diversamente, te lo dico io. L’unico suo errore è stato allearsi con baffetto, ma entrambi hanno fatto anche cose buone. Salvini? Uno con le palle e con la testa. Devi morire annaspando, devi morire coi polmoni pieni d’acqua, non dobbiamo neanche doverti soccorrere. Facci un favore: crepa. Quaranta euro al giorno (o erano cinquanta? No, molti di più), hotel a quattro stelle, sauna e piscina, colazione pranzo cena tutto incluso. Ci vuoi impietosire, ma il cellulare ce l’hai, com’è sta storia? Il mio paese non mi difende allora io mi difendo da solo. Viva il caporalato, devi raccogliere pomodori a un euro all’ora e ringraziare. A testa bassa diciotto ore al giorno fino a quando non stramazzi a terra. Prova a ribellarti e ti spariamo in testa. Prova a rifiutarti di fare lo schiavo e mandiamo qualcuno a sterminare la tua famiglia. Tu non esisti, non hai diritto di esistere. Ancora respiri? Muori. Alimento la mia paura perché ne ho bisogno per sopravvivere. Prendermela con te è più semplice, mi fa sentire meno debole, mi permette di svagare la mia mente stressata e piena di paure.

ONDE RADIO

Fuocoammare si apre con l’immagine di un bambino, Samuele, che spezza e taglia dei rami mentre tra mare e terraferma viaggiano messaggi radio contenenti dediche di canzoni popolari e informazioni su barconi pieni d’immigrati da soccorrere. Gigantesche antenne girano su stesse e trasmettono dati, parole, musiche, notizie di morti. Si vedono Samuele e un suo amico costruire una fionda artigianale, i due non parlano in italiano, utilizzano un dialetto che quasi nessuno in Italia capirebbe. Si fa notte, con una torcia in mano si dirigono verso un boschetto a caccia di uccelli. Non lo fanno per sopravvivere, non ne hanno bisogno, lo fanno perché sono bambini, lo fanno perché vogliono sfogare l’aggressività maschile, lo fanno perché vogliono farlo. Lo fanno e basta. Coordinate, segnali, radar, onde radio, spettri elettromagnetici continuano a spostarsi e ad avvolgere, invisibilmente, ogni metro dell’isola di Lampedusa.

In una casa c’è una signora anziana che prepara da mangiare. Quando sente le news che le comunicano l’ennesima morte di migranti, senza smettere di cucinare, dice “Poveri cristiani”. Qualcosa bolle in pentola. All’interno di un’abitazione accogliente la vita va avanti.

GIANFRANCO ROSI E L’EREDITÀ DEI LINGUAGGI

Il lavoro di Gianfranco Rosi, nonostante la forma documentaristica e non del cinema in quanto prodotto di finzione, si muove in una direzione che quasi tutti i suoi ben più incensati colleghi sembrano aver smarrito: la ricerca del vero. Affacciarsi ad un’opera di Rosi significa accettare di essere investiti da echi e tradizioni dimenticati dalla cinematografia italiani degli ultimi decenni. Volti senza trucco, volti né belli né brutti, semplicemente normali, polvere sui mobili e sporcizia, persone che parlano di lato, di spalle, fissando l’obiettivo, gente che sta immobile e che usa le mani per lavorare, mani consumate, sporche, gente non solamente presa dalla strada, ma che è la strada.

I protagonisti di Sacro Gra e Fuocoammare sembrano far parte di quella stessa umanità senza tempo già incontrata in alcuni dei migliori film del neorealismo con Roberto Rossellini (non solo Roma Città Aperta, ma anche Stromboli, Europa ’51, Viaggio in Italia) o Vittorio De Sica (Sciuscià, Umberto D., troppi da elencare tutti). Sessanta o settant’anni dopo, è la medesima Italia. Non un paese di sbruffoni, non un popolo che si atteggia a quello che non è, non un cinema che lava i panni sporchi a casa propria.

Gianfranco Rosi registra espressioni, azioni, frasi, brandelli di discorsi, rumori ambientali prendendosi qualche metro di distanza, ma partecipando attivamente a quello che succede. Il suo è un cinema fatto d’inquadrature fisse, per lo più, ma ogni immagine contiene e comunica sempre il maggior numero di dettagli possibili. È così che una maglietta dei Lakers indossata da un migrante, un volto riflesso in uno specchio circondato da vecchie fotografie incorniciate, la statua di una santa in camera da letto, il rumore di una dorata coperta isotermica simile a quello prodotto dall’involucro appallottolato di un cioccolatino conducono lo spettatore in una dimensione altra rispetto a quella dei servizi televisivi pre-registrati, montati per mostrare solo l’essenziale e con neutre voice-over prive di emozioni.

Nei film di Rosi a parlare sono le persone comuni o, molto spesso, il silenzio. Il regista non si sostituisce a nessuno e riprende in prima persona quello che si trova davanti. Interessante anche come le cronache di Fuocoammare procedano in maniera meno frammentata rispetto a quella di Sacro Gra con quella che è solo in apparenza una non-narrazione. Ci sono diversi livelli inseriti in un medesimo contesto: il medico che –nonostante le numerose ispezioni cadaveriche – non riesce ad abituarsi alla morte, il disc-jockey che nelle case dei lampedusani fa risuonare canzoni popolari accompagnate da dediche personalizzate, il pescatore subacqueo in apnea, ma soprattutto Samuele coi suoi problemi di vista e gl’immigrati con tutto il loro bagaglio di disperazione.

Grazie all’ausilio dei sottotitoli quasi non ci si accorge che Fuocoammare fa perno proprio sull’utilizzo di linguaggi diversi, lontani dalla lingua italiana comunemente usata, e sulla relativa difficoltà comunicativa. Come già scritto poco sopra, lo spettatore è messo in una condizione in cui non può capire quasi nulla di quello che Samuele dice a meno che non sia di Lampedusa o almeno siciliano (e ancora). È importante realizzare che ci si trova smarriti più ad ascoltare questo bambino piuttosto che i sopravvissuti alla traversata e i loro canti di preghiera che mischiano, in un rozzo eppure semplice inglese, canzoni rituali, rappate e improvvisazioni vocali. Di fronte a tutto ciò, qual è e dove si colloca la diversità e chi è veramente più vicino a noi? Ampliando ancora di più il raggio d’indagine, cosa differenzia i pigolii di un passerotto dalle esclamazioni di spavento o terrore di un essere umano? Cambiano le modalità di linguaggio, ma le sensazioni comunicate potrebbero essere le stesse.

TUONI E PAURE PRIMITIVE

Verso la metà del film, a Samuele viene diagnosticato un occhio pigro. Per guarire deve portare una benda sull’occhio sano e sforzarsi di usare l’altro. Si tratta di una disfunzione che non pregiudica la sua esistenza perché ha sempre fatto tutto quello che fa una persona della sua età (giocare, fare i compiti, andare in giro a combinare bricconate), ma è qualcosa che si può correggere per migliorare la propria vita.

La condizione medica in cui versa il bambino protagonista di Fuocoammare è metafora della cecità occidentale? Rosi invita ad aprire entrambi gli occhi per capire cosa stia veramente succedendo a Lampedusa e chi siano i veri “colpevoli” che hanno causato questo flusso migratorio? Il regista questo non lo dice, non c’è alcun cenno alla politica italiana o europea, ma fa intendere quanto scagliarsi contro dei poveracci vestiti di stracci sia un fatto non solo moralmente condannabile, ma soprattutto sbagliato.

C’è una scena in cui Samuele è terrorizzato da un temporale. Sua nonna cuce e gli racconta di quando il nonno di lui andava a pesca con la barca, di quando lei andava ad accoglierlo in spiaggia al suo ritorno. Samuele ascolta attentamente, fa domande, ma ogni due per tre si gira spaventato verso la finestra fuori dalla quale sta iniziando a tuonare.

Il suo volto di bambino impaurito non è dissimile da quello dei migranti disidratati, affamati, disorientati, distrutti dal viaggio (prima nel deserto e poi in mare) e senza più amici e parenti morti in maniere atroci lungo quel tragitto. Molti di loro hanno la pelle coperta da bruciature di gasolio fuoriuscito dalle taniche sul gommone e sono talmente impregnati di quel liquido che, quando vengono finalmente tratti in salvo, i soccorritori non riescono neanche a tenerli fermi senza che finiscano sguisciati via come pesci. La paura non ha confini geografici.

DI ORSI E DI RENZI E DI STRONZI

Inaspettatamente per tutti, probabilmente Rosi compreso, il suo film non solo ottiene un ottimo successo alla 66ma edizione della Berlinale, ma si aggiudica il premio più importante, l’Orso d’oro, l’equivalente berlinese del Leone veneziano o della Palma di Cannes. Il discorso del regista, salito sul palco dopo l’annuncio della vittoria, si focalizza tanto su coloro che sono morti raggiungendo l’Italia (e quelli che ce l’hanno fatta) quanto sui lampedusani, che l’hanno accolto per più di un anno mentre il suo Fuocoammare prendeva forma, ripresa dopo ripresa.

Qualche settimane dopo, sempre pronto a salire sul carro dei vincitori, l’ex premier Matteo Renzi si procura decine di copie del film di Rosi da dare ai leader politici europei per farli riflettere sul dramma di un’immigrazione di spaventose dimensioni che loro stessi, in complicità con gli Stati Uniti d’America, hanno creato e fomentato, senza nessun intenzione d’interromperla perché è un business troppo goloso: i migranti sono perfetti capri espiatori per tutto quello che di male sta succedendo nel mondo; i migranti funzionano come diversivo perché vengono percepiti come nemici e invasori, qualcosa da combattere, il Male; i migranti diffondono il terrorismo, benvenuti in una nuova Era della Paranoia; i migranti sono portatori di malattie, guai ad avvicinarsi a loro. E così via.

Ogni popolo ha i politici che si merita e Matteo Salvini, in tal senso, è un peso massimo. Qualche tempo dopo l’Orso d’oro a Gianfranco Rosi, il populista cavalca-paure della Lega si fa una delle sue morbide uscite: “Non andrò a vedere ‘Fuocoammare’ perché è il solito pippone sui migranti, buonista e inutile”. Una dichiarazione come questa la dice lunga su di lui e sul suo elettorato perché giudicare una qualsiasi cosa senza conoscerla (in questo caso, senza aver visto il documentario) e pretendere di avere ragione significa regredire ad uno stadio larvale senza possibilità di ascesa ad un livello superiore. Per di più, Fuocoammare vuole essere e dire tante cose, ma di certo non è un film a difesa o contro nessuno, ma solamente una riflessione attorno ad un fenomeno inarrestabile e che bisogna comprendere o almeno sforzarsi di farlo. Ad occhi spalancati.

Sono nato e ho lavorato in ogni paese

e ho difeso con fatica la mia dignità.

Sono nato e sono morto in ogni paese

e ho camminato in ogni strada del mondo che vedi.

Mio fratello che guardi il mondo

e il mondo non somiglia a te.

Mio fratello che guardi il cielo

e il cielo non ti guarda.

Se c’è una strada sotto il mare

prima o poi ci troverà.

Se non c’è strada dentro al cuore degli altri

prima o poi si traccerà.

(Ivano Fossati, Mio fratello che guardi il mondo, 1992)

SACRO GRA: FANTASMI URBANI

di Gabriele Barducci

Nello sfottò sportivo romano, c’è una frase che ha anticipato i tempi dei nostri Meme di internet: “Totti, al di fuori del Grande Raccordo Anulare, non lo conosce nessuno”. Facile intuire il mittente e destinatario di questa dichiarazione. Da una parte ci sono i tifosi della Lazio che, come giusto che sia, tengono testa ai continui sfottò sulla loro squadra da parte dei tifosi della Roma, i quali si vedono preso di mira, l’ormai ex capitano Francesco Totti. Cosa c’è di vero e cosa non. Di vero che sicuramente Totti è conosciuto facilmente non solo fuori dal Grande Raccordo Anulare (GRA da ora in poi, visto il film in oggetto), ma proprio al di fuori di ogni confine Europeo e non, di falso ci sono le considerazioni che si possono tratteggiare attorno a questa realtà.

Il GRA è un anello autostradale che circonda tutta la capitale “e nelle soste faremo l’amore”. Più che unire, ha la funzione di immersione nelle vie capitoline, ma anche collegare le diverse zone di Roma, anche le due più odiate quali Roma Nord e Roma Sud (siamo simpatizzanti di quest’ultima, va detto). Gianfranco Rosi coglie l’occasione di portare su pellicola una realtà più odiata che amata da qualunque romano che mai abbia avuto la sfortuna di imbattersi nel classico “traffico del Raccordo”. Come una lunga coda di macchine in fila, ad attendere che scivoli via l’ingorgo  e gli automobilisti tra il sacro e il profano, ci sono vecchie carcasse di dinosauri in coda verso chissà quale destinazione, che comporta inevitabilmente una storia.

Rosi dunque percorre il GRA sopra e sotto – quante storie si possono trovare nei quartieri più degradanti di Roma, solo il tempo saprà dircelo -, lo filma e lo vive per quasi due anni, a scegliere realtà particolari, sicuramente cercate con forza, ma che raccontano con una forza inarrestabile scorci di vita quotidiana.

Sacro GRA è a tutti gli effetti un documentario, ma Rosi, prima con questo e poi con Fuocoammare ha saputo varcare quella linea di demarcazione tra il vero e il finto. Rosi non filma il vero, ma filma la sua stessa ombra, di un uomo con in mano una camera da presa (il regista tende a registrare sempre da solo per assicurare un tessuto narrativo privo dell’elemento ‘cinema’) e a parlare sono i rumori, il sole, le chiacchiere di semplicissima gente comune e avere il giusto tocco di rendere la realtà, cinema, nella sua più stretta connotazione letterale.
Fare cinema, senza mezzi di cinema, senza sceneggiatura, senza attori.
Concetto forse astruso, ma se si entra nella giusta ottica ci rendiamo conto di quanto ogni singola storia raccontata, dalle ballerine notturne, al vecchio nobile piemontese (attenzione al taglio di inquadratura che Rosi gli regala ogni volta, da grande, grandissimo cinema) o alla figura dell’infermiere Roberto che ogni notte corre sul Raccordo dentro un’ambulanza, c’è una storia che esula dal voler essere raccontata, puntando ad essere strettamente un’icona pulp. Così c’è il principe decaduto che passa le giornate ad affittare stanze della sua sfarzosa villa, fare ginnastica e giocare a Solitario al computer. Piccole storie di piccolo conto, come l’operatore dell’ambulanza sopracitato, o l’anguillaro o il palmologo. Queste in particolare sono scorci di vita reale che fanno parte di questa grande costruzione autostradale e che arricchiscono questo concetto di narrazione reale.

Sacro GRA è un documento audio visivo di inestimabile importanza poetica, perché si forma anche di quei piccoli momenti di cinema ricercato, ma la restituzione poetica è vera, non forzata. Quelle vite così strane – si ride molto e le diverse sequenze interessate sono ampiamente dolcissime quanto simpatiche – non solo fanno parte del GRA, ma creano fantasmi e spettri della città di Roma.

Ancor più della città o del GRA citato nel titolo, il vero protagonista di tutto il minutaggio è l’essere umano nella sua interezza. La narrazione spezzettata ci permette di assaggiare piccoli bocconi di queste persone, ma nella loro interezza scopriamo cosa? Roberto, l’operatore di autoambulanza, dopo una nottata di lavoro, arriva a casa, mangia, parla via webcam con altre persone – la sua vita sembra racchiusa tutta lì, ma non c’è tristezza, anzi – e poi va a trovare la madre, affetta da demenza senile che quasi stenta a riconoscerlo ogni giorno.
Come già espresso poco sopra con Fuocoammare, la potenza con cui Rosi sceglie di narrare queste storie di uomini, accrescono esponenzialmente il luogo in cui si svolgono. Un teatro nel teatro dove ad ogni scorcio di via romana, potremmo immaginare di incontrare un uomo o una donna con storie simili a queste raccontate. Nel lusso, troviamo i signorotti, nel degrado troviamo le prostitute che comunque hanno buon gusto nel mangiare bene o combattere contro le proprie ingiustizie. L’anguillaro se la prende con una civiltà sempre più lontana che non capisce e quindi vive sulla barca o su installazioni a riva di un fiume, l’attore di fotoromanzi ricorda la sua gioventù e un semplice uomo va a trovare la sua madre anziana.

Fantasmi più che uomini, lasciano una traccia sia fisica (la famiglia che ridipinge la casa per i prossimi inquilini che l’abiteranno) sia mentale (il nobile che arricchisce le giornate di studio della figlia con aneddoti) e tutto questo riempie una città grandissima quale quella di Roma.

Se Roma fosse un dipinto, potremmo attingere a quel concetto secondo cui un buon dipinto non è nulla senza una cornice adeguata. Il GRA è una cornice perfetta perché nei suoi km di percorrenza ha ben 31 uscite, tra dentro e fuori Roma. Ognuna di queste è una possibile storia, una sfumatura, una pennellata su una tela, un pixel su uno schermo di un computer. Non di meno possono essere le storie che vengono raccontare sopra quel manto stradale. Percorriamo quei km e nel sedile del passeggero accanto a noi potrebbe esserci una di quelle persone, ormai sembra di conoscerle da una vita – si vede come Rosi abbia passato tantissimo tempo con ognuno di loro – e continuare un discorso mai iniziato direttamente.

Se il Jep Gambardella di Sorrentino, mani raccolte dietro la schiena, camminava per la Roma notturna, Rosi sale in macchina con te e percorre il GRA più volte nella notte, attendendo le prime luci dell’alba. E’ una lunga conversazione sulla vita, sul cinema e sul domani, ma vale la pena affrontarla.

Simone Tarditi