
Miles Ahead: di nastri rubati e capsule del tempo
July 4, 2017Dopo Louis Armstrong, non esiste altro trombettista più famoso di Miles Davis, icona camaleontica capace di cambiare look e stile musicale in un continuo crescendo volto al rinnovamento, allo svecchiamento, all’esigenza impellente di ricercare e assimilare la diversità.
Nella seconda metà degli anni ’70, all’apice del successo, Miles Davis smette di suonare e di comparire in pubblico, si chiude in casa e si esilia per quattro/cinque anni. Droghe, tv sempre accesa, sporcizia ovunque, pochissimi contatti umani. Il suo è un lento ricovero da se stesso, dalla scena musicale, dal caos del mondo. Il film, amalgamando spunti biografici ed elementi di finzione, mostra l’ultima fase di questo periodo della sua vita, di come Miles si sia faticosamente rimesso in piedi e di come l’abbia fatto correndo letteralmente dietro alla sua musica (un nastro trafugato dalla sua casa diventa macguffin attorno cui costruire l’intera storia).
Miles Ahead non ha entusiasmato i fan del musicista o i cinefili, ma -al di là di quello che è un prodotto lontano dall’essere straordinario- forse non sono state comprese appieno le motivazioni che hanno spinto Don Cheadle (regista e interprete) a realizzare questo biopic in un modo che, paradossalmente, va contro alla stessa idea classica di biopic: distaccarsi, spesso e volentieri, dalla realtà biografica. Per capire meglio l’intento di Miles Ahead bisogna rifarsi a quello che è il materiale cartaceo su cui è stato modellato il film, cioè l’autobiografia di Miles Davis.
In Miles. L’autobiografia (a cura di Miles Davis e Quincy Troupe, Roma, Edizioni minimum fax, 2014) non c’è una sorta di “sguardo a posteriori” con cui il trombettista ripercorre senza pathos gli eventi della sua vita, bensì si assiste allo scivolamento ad una condizione mentale legata al passato vissuto.
Con il suo linguaggio che mescola insieme tecnicismi e slang da strada, Miles Davis rivive la sua storia e lo fa caricando ogni pagina di aneddoti confusi, contradditori, sperticandosi in elogi ad amici e colleghi che nel capitolo successivo descrive come “stronzi” o “avidi” salvo poi utilizzare aggettivi diversi altrove. Giusto per fare un esempio, nel libro Miles Davis critica pesantemente Charlie “Bird” Parker per la dipendenza dall’eroina e poi, qualche decina di pagina dopo, è lo stesso Davis a scivolare nel baratro di quella droga. Contraddizioni, mezze verità, egocentrismo, desiderio di rivalsa sociale, tradizioni e innovazioni, amore per l’arte e le donne e le automobili veloci. Non si può conoscere mai il vero Miles Davis, ma almeno possono essere individuati i punti cardinali per orientarsi un poco all’interno della sua personalità.
L’elemento curioso e interessante è anche un altro: le stesse parole destinate agli altri le indirizza anche a se stesso, si auto-celebra e si affossa nell’arco di poche righe, s’insulta per le cazzate fatte e si assolve per i peccati commessi, si punisce per gli errori in cui è inciampato e s’incensa per la musica composta. Eppure, non c’è mai un attimo di confusione. Infatti, il trombettista ricorda luoghi visitati, nomi e cognomi di tutti, riesce a datare sessioni di registrazione avvenute quarant’anni prima ricordando pure il numero della takes incise. Miles Davis è questa roba qui, che traspare nella sua immagine, nella sua figura e nella sua musica. Posto che sia mai possibile farlo, in un caso come questo è veramente impossibile scindere l’artista dall’uomo.
Leggere l’autobiografia, inoltre, fa capire alcuni elementi del film apparentemente incomprensibili e inventati artatamente. In Miles Ahead si fa conoscenza del giovane e talentuoso Junior, un riservato e cupo trombettista in mano ad un’agente spietato che vuole solo arricchirsi sulle sue spalle. Miles Davis lo percepisce come minaccia e come nemico (è causa sua se i nastri vengono rubati), ma tuttavia vede in lui una parte di sé. Per farla breve, Junior non è mai apparso nella vita di Miles Davis, ma quell’appellativo era quello che utilizzavano nella sua famiglia e che lui ha sempre odiato.
Ecco uno snodo chiave per meglio apprezzare il film di Don Cheadle. In quello che è un castello di flashback, idilliaci o meno, Miles Davis vede parte del suo passato anche nel presente che sta vivendo, ogni cosa gli ricorda qualche episodio che ha già vissuto o qualche persona (se stesso compreso) che ha già incontrato. Il personaggio di Junior è di pura finzione, eppure è chiaramente una versione di Miles Davis da giovane (per rendere ancora più palese la cosa, è stata inserita anche Irene, che nel film è sposata con Junior, ma che nella vita reale è stata la prima compagna di Miles).
Senza abusarne mai, Don Cheadle opta per una costruzione narrativa tale per cui i ricordi di Miles Davis diventano elementi tutt’altro che accessori: spalancando porte, girando angoli, percorrendo luoghi, il protagonista fa confluire contemporaneità e storia (la sua personale) in un tessuto di eventi straniante per lo spettatore, ma coerente con il personaggio. Tra questi, due momenti su tutti: il passaggio segreto all’interno dell’ascensore della casa discografica e, verso la fine del film, il concerto-incontro di boxe nella più totale baraonda.
A far scattare queste reminiscenze spesso è il pensiero di Frances, l’unica donna che lui abbia davvero amato. La copertina di un disco che la ritrae o l’ascolto di una determinata canzone, catapultano Miles all’interno di capsule del tempo sparate verso un orizzonte di rimpianti e ricordi felici, momenti di vita terminati e non replicabili.
Delle tre insuline al giorno per via del diabete, della bronchite cronica, della gamba ridotta male dopo un incidente con una Ferrari, dell’influenza della musica classica in Miles Ahead si fa qualche accenno, ma neanche più di tanti. Miles Davis viene mostrato come un cinquantenne sciancato che lotta contro quella parte di sé che rema in direzione contraria, che aborre la definizione di “jazz” a cui propone quella di “social music”, che deve di nuovo re-imparare a suonare la tromba dopo essere stato inattivo per troppo tempo (qui, un punto di contatto con Born To Be Blue, il biopic su Chet Baker).
Il finale del film, che s’isola dalla narrazione proseguita fino a quel momento, vede il trombettista sul palco assieme ad un supergruppo. Il finto Miles Davis interpretato da Don Cheadle è circondato da Antonio Sanchez alla batteria, Wayne Shorter al clarinetto, Herbie Hancock alle tastiere e altri strumentisti. Veri musicisti, alcuni dei quali hanno suonato con ed erano amici del trombettista, celebrano la figura immortale di uno dei mostri sacri del jazz (l’anima di Miles Davis perdonerà l’uso di questo termine). In fondo, come dice anche una delle tagline usate per Miles Ahead, quella raccontata nel film non è altro che la sua storia … con un po’ d’improvvisazione.
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